04 agosto, 2007

GUATEMALA: Rigorberta, stella cadente

La candidata alle presidenziali guatemalteche del 9 settembre, il Nobel per la Pace Rigoberta Menchú, icona della lotta per i diritti indigeni, non riesce a sfondare: le spiegazioni (e le accuse) di un gesuita
Ricardo Falla S.I.
S.TA MARÍA CHIQUIMULA (GUATEMALA)
Che cosa è successo a Rigoberta Menchú? Non era, secondo i sondaggi, la persona più stimata del Guatemala? Non ha forse provocato una scossa elettrica nei nervi della classe dirigente «bianca» quando, a febbraio, ha annunciato la propria candidatura per le presidenziali? Come è possibile che, secondo alcuni sondaggi (forse non i più precisi, certo i più influenti), a giugno sia scesa a un misero 1,5% nelle intenzioni di voto? I governi stranieri e le Ong non la consideravano la nuova stella del firmamento politico? Non è forse lei l'amica di Jacques Chirac, la donna che in Italia attirava folle di giovani, il Premio Nobel per la Pace che nel 1992 risvegliò tante speranze tra gli indigeni dell'America latina e in molti altri popoli nativi, persino quelli scandinavi?Una premessa. Gli stessi istituti di sondaggi ammettono che, nel momento in cui scriviamo (inizio luglio), il 40% della popolazione non ha ancora scelto per chi votare. E tra i sondaggi, quelli più indipendenti a maggio le davano quasi un 10%. In ogni caso, la sensazione generale è che sia già svanita la speranza di poter rinnovare profondamente una campagna elettorale noiosa e monotona, e che la classe dominante e i politici si siano tranquillizzati nel vedere che Rigoberta non era il temuto nemico che avrebbe trascinato tutto il popolo indigeno.
LA DISILLUSIONE DEI SUOILa delusione (o, per alcuni, il sospiro di sollievo) ha diverse spiegazioni. La prima, e la principale, è che Rigoberta non ha dietro di sé un'organizzazione di massa (come, ad esempio, Evo Morales in Bolivia), una struttura di sostegno che copra le regioni indigene, né tanto meno il Paese intero. La sua forza, l'attività internazionale, è diventata la sua debolezza. La Fondazione «Rigoberta Menchú» è una Ong e come tale è solo un gruppetto di persone che abitano nella capitale. Vale a dire, il solo collante dell'identità etnica non funziona se non c'è un filo che tiene insieme il tutto. L'identità è come il vento, è molto potente, ma ha bisogno di questo filo visibile, concreto e tangibile, che arrivi fino ai villaggi più remoti.Una seconda spiegazione è che Rigoberta è vista dagli indigeni, per quello che possiamo capire e sentire, come una persona che si è allontanata. Dicono che non ha distribuito il Premio Nobel, ma lo ha investito mettendo in piedi una catena di farmacie. Dicono che è superba, che non vuole più parlare con i poveri, che non va a Chimel, il suo villaggio, che si è già dimenticata della sofferenza del suo popolo. «Andiamo alla Fondazione per incontrarla - dicono - e ci rispondono di tornare fra tre mesi, ma se arriva un nordamericano o un europeo lo ricevono immediatamente». Molte donne indigene, con cui ci siamo messi a discutere difendendo Rigoberta, invece che essere contente perché una donna corre per la presidenza, provano una sorta di invidia e la attaccano duramente.Una terza spiegazione è che il Guatemala è già transitato attraverso una grande speranza di cambiamento radicale negli anni Ottanta, uscendone con una altrettanto grande frustrazione. In quel periodo, una scintilla di entusiasmo negli occhi dei giovani faceva sì che essi si muovessero e si sacrificassero. La benzina per questo movimento era una speranza: «possiamo vincere!». Ora questo non si vede. Se anche Rigoberta arrivasse alla presidenza, non vinceremo niente, perché lei si ritroverà prigioniera. Non c'è possibilità di cambiamento.Un quarto elemento è che la campagna è percepita dalla gente come un business. Non solo perché occorre denaro per pagare gli spot televisivi, i manifesti elettorali, i sostenitori, ma anche perché il successo stesso equivale a un affare. Così, se Rigoberta non ha denaro per la campagna elettorale, la gente non è disposta a finanziarla. Infatti, l'idea diffusa è che questi soldi non andrebbero a una causa comune, ma semplicemente ad arricchire una persona. La campagna elettorale non viene vista nemmeno come una lotta per una fetta di potere, ma semplicemente come una lotta per una quota di affari. Una motivazione ulteriore è che, nonostante Rigoberta si sia alleata con un imprenditore che è stato presidente del Cacif, cioè della cupola imprenditoriale del Paese, non si vede realmente scorrere denaro nelle sue fila. Una società di ricerche ha calcolato, per il mese di maggio, quante donazioni aveva raccolto ciascuno dei principali partiti: Une (Unidad Nacional de la Esperanza) quasi 3 milioni di quetzal (285mila euro), Gana (Gran Alianza Nacional) 2,7 milioni, Pp (Partido Patriota) un milione, Eg (Encuentro por Guatemala), il partito della Menchú, 53mila. Inoltre, sui media non emergono il suo carisma, la sua arguzia e la sua intelligenza. Quando compare in video, Rigoberta sembra tesa, come prestata a programmi di altri. Per di più, l'imprenditore che corre con lei per la vicepresidenza, Luis Fernando Montenegro, è visto più come un ricco retrogrado e razzista che non come un simpatizzante della famosa «terza via» inseguita dalla socialdemocrazia in tutto il mondo.
UNA TORTA GIÀ DIVISAAncora e soprattutto, risulta nociva a Rigoberta la prigione in cui si trova. Il partito non è suo, né del popolo indigeno. È di Nineth Montenegro, moglie del candidato vicepresidente, che si sta preparando la strada per le elezioni del 2011. Lo spazio in cui Rigoberta si muove è molto angusto. Non vuole apparire di sinistra. Non si è alleata con il partito degli ex-guerriglieri perché ciò l'avrebbe bruciata. Non sembra intenzionata a proporre riforme radicali.Rigoberta, in realtà, si è messa in questa prigione prima ancora di lanciarsi nella corsa, nel momento in cui ha accettato di essere «Ambasciatrice di buona volontà per gli Accordi di pace», un ruolo inventato dall'attuale governo di Oscar Berger. Un'altra prigione che lei stessa si è imposta è l'aver taciuto di fronte alla denuncia della magistratura spagnola contro il generale Efraín Ríos Montt, colpevole di genocidio, causa che lei stessa aveva promosso. In campagna elettorale ha detto che per «motivi etici» non soffia sul fuoco della polemica e non attacca il generale (a sua volta candidato per il parlamento in modo da ottenere l'immunità). Ma che cosa significa la parola «etica»? Rigoberta deve spiegarcelo. Perché ora tace? Forse perché il partito, che non è suo, gliel'ha proibito?In ogni caso, come si diceva, l'esito del voto è ancora molto incerto. I rappresentanti dell'Eg sono convinti di poter dare la zampata vincente. Bene, aspettiamo questa zampata. Tuttavia, come ci ha confidato un politico di Alta Verapaz quando era stata appena annunciata la candidatura di Rigoberta, «qui è già tutto suddiviso». Ogni partito, con il proprio candidato a sindaco, ha già la propria gente, i propri legami, e non si riesce a intaccare questa suddivisione della torta, fatta di denaro più che di potere. Una torta che potrà forse darci più infrastrutture, più strade, più asfalto per il nostro oratorio, ma che non cambia lo Stato, il sistema fiscale, la distribuzione delle terre.

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