01 novembre, 2009

HONDURAS da Il Manifesto 31 ottobre

I nove punti dell'intesa
Questi i punti dell'accordo: 1) La creazione di un governo di unità e riconciliazione nazionale 2) Non ci sarà amnistia per delitti politici e penali. 3) La rinuncia alla convocazione di un'assemblea costituente o alla riforma della costituzione vigente nei suoi articoli «irriformabili». 4) Il riconoscimento alle elezioni generali del 29 novembre e al trapasso del governo nel gennaio 2010. 5) Il trasferimento dell'autorità sulle forze armate dal presidente della repubblica al Tribunale supremo elettorale. 6) La formazione di una Commissione di verifica sul compimento degli accordi. 7) La formazione di una Commissione per la verità che indaghi gli eventi antecedenti e successivi al golpe del 28 giugno. 8) La richiesta alla comunità internazionale perché normalizzi i rapporti con l'Honduras e revochi le sanzioni. 9) L'appoggio alla proposta che attribuisce al Congresso nazionale, «previa l'opinione della Corte suprema di giustizia», la decisione sul ritorno del potere esecutivo alla situazione antecedente al 28 giugno.

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Soddisfazione negli Usa, fredda l'America latina
«Voglio congratularmi con il popolo dell'Honduras, così come con il presidente Zelaya e il signor Micheletti per aver raggiunto un accordo storico». Così, il segretario di stato Usa, Hillary Clinton, ha salutato l'accordo raggiunto tra i due ex nemici per porre fine alla crisi politica in Honduras. Fra i punti principali dell'accordo, la formazione di un governo di riconciliazione nazionale, il passaggio di poteri dalle forze armate complici del golpe al Tribunale supremo elettorale e la conferma al 29 novembre delle elezioni generali. E gli Stati uniti - ha aggiunto Clinton - lavoreranno affinché la consultazione elettorale sia «trasparente e libera». E da Washington, il segretario generale dell'Organizzazione degli stati americani, Josè Miguel Insulza, ha dichiarato che predisporrà al più presto l'invio di «una missione elettorale» nel paese centroamericano. Per preparare l'appuntamento elettorale, ha precisato Insulza, «c'è infatti molto lavoro da fare». Il percorso verso la democrazia sarà ancora lungo, come confermano anche la relazione Unicef in Honduras, presentata mercoledì scorso: almeno 79 casi di gravi violazione dei diritti umani nei confronti dei minori dopo il colpo di stato e 1.600 decessi, sempre di minori, dovuti al deterioramento delle condizioni economiche e sanitarie nel poverissimo paese centroamericano.
Soddisfazione per l'accordo concluso è stata espressa dall'Unione europea, che «ha lavorato per una soluzione pacifica e negoziata» (secondo la nota della Farnesina), mentre la Francia, d'accordo con i suoi partner europei, «è pronta» a fornire osservatori per il voto presidenziale e legislativo del 29 novembre (lo ha annunciato il ministro degli esteri, Bernard Kouchner). Reazioni positive - ma senza entusiasmo - anche in America latina. Fra i primi a rallegrarsi per l'accordo, il governo del Paraguay e quello del Perù. Anche il governo nicaraguense di Daniel Ortega, sotto accusa insieme al presidente venezuelano Hugo Chavez per aver fornito rifugio e appoggio diplomatico al presidente Zelaya, rifugiato nell'ambasciata del Brasile. Per questo, contro il Brasile, il governo del golpista Micheletti aveva ricorso alla Corte internazionale di giustizia, accusandolo di ingerenza negli affari interni del paese.

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La vittoria ai punti della democrazia
Tegucigalpa è una delle capitali più brutte dell'America latina e l'Honduras, con tutto il rispetto per gli honduregni, è uno dei posti più sfigati del mondo. Uno di quei posti in cui i tre quarti dei 7 milioni di abitanti vivono con il famoso dollaro al giorno e una decina di famiglie arraffano da sempre tutto il potere, politico, economico e sociale. Ma non lasciatevi ingannare dal silenzio e dall'indifferenza. Il golpe civile-militare della destra, il 28 giugno, contro il presidente Manuel Zelaya, un liberale atipico, è qualcosa che interessava tutti da vicino. Non solo l'America latina - tutta l'America latina -, ma la «nuova» America di Obama e la cosiddetta «comunità internazionale».
Voleva dire che l'epoca dei golpe «naturali» non era morta ed era tornata. Nel dimenticato Honduras perso in Centramerica, forse fuggevolmente noto da noi solo perché in una delle sue bellissime spiagge sui Caraibi c'era la location dell'Isola dei famosi, in questi ultimi quattro mesi si giocava una partita importante, se non proprio decisiva, per il futuro. E, a quanto pare, fatti salvi colpi di coda che al momento appaiono del tutto improbabili, la partita si è conclusa nella notte fra giovedì e venerdì, con la vittoria (ai punti) della squadra della democrazia sulla squadra del golpe. È stato quando verso la mezzanotte le due delegazioni, una degli uomini del presidente Zelaya «ospite» dell'ambasciata brasiliana di qui dal 21 settembre e l'altra degli uomini del presidente golpista Roberto Micheletti, hanno firmato l'accordo in 14 punti che rimetta le cose al loro posto e consenta di affermare che la democrazia formale è stata restaurata con il ritorno di Zelaya alla presidenza, sia pure un ritorno fugace fino alle elezioni del 29 novembre, e senza poteri reali se non quello di insediare il suo successore il 27 gennaio 2010.
Con George W. Bush alla Casa bianca questo non sarebbe mai successo, i golpisti honduregni - forse un po' «figli di puttana» ma i tradizionali figli di puttana seminati dagli Stati uniti in giro per il Centramerica e per il mondo - alla fine sarebbero stati riconosciuti e il golpe in Honduras in nome della «democrazia» e dell'eterna lotta «contro il comunismo» - che in assenza del comunismo è identificato nel venezuelano Hugo Chávez - sarebbe passato.
Ma nella «nuova» America latina, non solo quella «radicale» - Chávez, il boliviano Morales, l'ecuadoriano Correa - ma anche quella «moderata» - il brasiliano Lula, l'argentina Cristina Fernández - e perfino quella di destra - il colombiano Uribe, il peruviano García -, non è passato. Perché tutti, radicali e moderati e ultra-destri filo-americani si sentivano ronzare nelle orecchie quel verso delle Satire del vecchio Orazio: «de te fabula narratur...». E non è passato con Obama alla presidenza (nonostante l'atteggiamento molto ambiguo degli Usa). Non poteva passare pena la perdita di ogni credibilità del suo impegno ad avviare un «new beginning» nei rapporti fra Stati uniti e America latina e a cambiare l'immagine deteriorata di cui specialmente qui e con tutte le ragioni del mondo, godono gli Usa.
Così, per uno strano gioco del destino e della politica, la situazione si è sbloccata, in senso positivo, grazie agli Stati uniti.
L'arrivo martedì scorso qui Tegucigalpa del sottosegretario di stato Usa per l'emisfero occidentale, Thomas Shannon, suonava come il finale di partita per i golpisti. Le trattative, cominciate il 7 ottobre, erano rotte dal 22. Allora Shannon, Kelly, Restrepo e l'ambasciatore Usa a Tegucigalpa, Hugo Llorens - un cubano-americano che, a quanto pare, aveva avuto un ruolo non trascurabile nella preparazione del golpe di giugno -, giovedì mattina si sono chiusi con le due delegazioni al dodicesimo piano dell'hotel Marriott e non sono usciti di lì se non dopo averle costrette, a tarda sera, a firmare l'accordo.
Un accordo di compromesso in cui Zelaya rinuncia al suo progetto più ambizioso (e necessario) di un'assemblea costituente per riformare una costituzione scritta nell'83, e fatta da e per l'oligarchia. A sua volta il golpista Micheletti, che sui muri di Tegucigalpa è diventato «Gorilletti», ha dovuto ingoiare il boccone più amaro: il ritorno alla presidenza di Zelaya - un liberale come lui - dopo un voto del Congresso - che dopo aver votato per la rimozione violenta del presidente costituzionale in giugno, tutti dicono sia ora pronto a votare, forse già oggi o domani, il suo ritorno - e non, come voleva Micheletti, dopo il giudizio di una Corte suprema iper-golpista. L'accordo prevede la creazione di un governo «di unità e riconciliazione nazionale», l'insediamento di una «commissione per la verità» che deve fare luce sugli eventi precedenti al golpe di giugno - che per i golpisti era un atto dovuto e legale per via del «tradimento della patria» ad opera di Zelaya - ma anche su quelli successivi - repressione violenta, una ventina di morti, migliaia di arresti, chiusura dei pochi giornali e tv favorevoli a Zelaya, stato d'emergenza. La carne che Shannon ha messo sul tavolo dei negoziati non lasciava scampo a Micheletti (e neanche, in minor misura, a Zelaya). L'annullamento delle sanzioni economiche e politiche, la ripresa degli aiuti internazionali vitali per un paese derelitto come l'Honduras, il riconoscimento delle elezioni fissate dai golpisti per il 29 novembre, che nessun paese e istanza internazionale avrebbe riconosciuto e che ora tutti si apprestano a riconoscere (non ci saranno né Zelaya né Micheletti).
Shannon non ha voluto strafare, ha definito «eroi della democrazia» i firmatari dei due bandi e dopo l'accordo ha detto di «non essere qui per imporre niente, la crisi è honduregna e la soluzione deve essere honduregna, noi siamo qui per dare garanzie». Una volta, fino a non molto tempo fa, in molti speravano che gli americani - che qui vicino, a Palmarola, hanno la maggior base militare dell'America centrale - se ne andassero al più presto. Adesso, a conferma del peso che gli Usa continuano ad avere sull'Honduras (e non solo) anche se in questo caso si sia trattato di un peso benefico, sperano che rimangano, almeno per un po', per garantire che i golpisti rispettino gli impegni. Non sarà facile. A cominciare dai tempi, «il cronogramma».
Poi, sullo sfondo, resta il discorso sulla democrazia. Zelaya, che non è comunista né castrista né chavista, aveva capito che con la democrazia solo formale un paese come l'Honduras non uscirà mai dalla sua condizione disperata. Ora tutto sembra tornato alla situazione «di prima», di sempre. Il 29 novembre si contenderanno la presidenza candidati dei partiti dell'oligarchia tradizionale, los liberales e los nacionales. In molti sono contenti, l'Onu, la Ue, l'Osa. Hillary ha telefonato per rallegrarsi per «lo storico accordo che pone fine alla crisi». Ci sarà tempo per vedere cosa succederà.
Ieri mattina la brutta Tegucigalpa sembrava perfino bella con «il popolo» che si è riversato per le strade e nella piazza del Congresso a festeggiare. Una cosa è certa: senza la resistenza popolare qui in Honduras e senza l'azzardo di Lula «ospitando» Zelaya nell'ambasciata, oggi qui qui non ci sarebbe niente da festeggiare. E non solo qui.

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