06 gennaio, 2010

Trenta morti affossano la libertà di stampa latinoamericana

di Stella Spinelli

L'America latina conta trenta giornalisti uccisi nel solo 2009

Trenta. L'America Latina, il continente riemerso dall'oblio forzato in cui dittature e oppressione l'avevano forzatamente rilegato, sta finalmente tornando alla vita grazie a una maggioranza di governi progressisti che soffiano sulla polvere di un passato di morte e miseria, ma ancora c'è molta strada da fare. Quello che era il vecchio cortile dello Zio Sam, ha sì nuova vita e nuove speranze, ma le libertà finora conquistate devono ancora fare i conti con corruzione e violenze incancrenite. Un dato, fra gli altri, fotografa quanta strada c'è ancora da percorrere sulla via per la piena libertà: il 2009 ha visto trenta giornalisti morti ammazzati per aver osservato, raccontato, diffuso in nome del diritto di ogni cittadino a essere informato. Di questi, tredici sono stati uccisi nel solo Messico, che si converte nel paese latinoamericano più rischioso per i giornalisti che perseguono la verità. Subito a ruota si piazza la Colombia, con sei morti, quindi il Guatemala con quattro, l'Honduras e il Brasile con due e infine il Salvador, il Venezuela e il Paraguay con uno. Il continente latinoamericano, dunque, in un contesto di crisi economica globale, negli ultimi dodici mesi ha segnato il passo in materia di libertà di stampa e dei diritti dei lavoratori dei mezzi d'informazione, colpiti da licenziamenti e cassa integrazione. A denunciarlo è la Federazione dei giornalisti dell'America latina e del Caraibi.

Gli omicidi, le aggressioni, sono stati nella maggioranza dei casi legati a casi di corruzione. Le vittime solitamente non sono però direttori o giornalisti di grandi media. Salvo casi eccezionali, vengono uccisi comunicatori di mezzi di informazione locali o comunitari oppure corrispondenti di grandi testate ma inviati in piccole località. L'intento, nel 2009, è stato comunque quello di eliminare la notizia. Per questo, in Messico, Colombia, Guatemala, Honduras, Brasile, Paraguay e Venezuela è stato deciso di "uccidere il messaggero".

Il Messico è in piena crisi umanitaria. I tredici giornalisti assassinati ne sono l'esempio lampante. Dietro c'è un grave connubio tra narcotrafficanti e governo, dato che l'impunità regna incontrastata. Aggressioni, intimidazioni, minacce sono la norma per tutti quei professionisti dell'informazione che si pongono con spirito critico e indipendente. Il risultato è o l'autocensura o la morte. Medesima situazione in Colombia, un paese piegato da una guerra interna cinquantennale, dove sguazzano incontrastati narcotraffico e corruzione. Specialmente nelle file governative. E infatti "è il medesimo governo a minimizzare i crimini contro i giornalisti, l'aumento esponenziale degli attacchi violenti contro i comunicatori sociali e la persecuzione verso giudici e magistrati, di cui è il principale artefice, ma che grazie a una suggestiva campagna internazionale riesce a mascherare e negare", spiegano dalla Federazione. Esemplare del clima che si respira in Colombia è la fine che ha fatto il progetto di legge per depenalizzare il reato di ingiuria e calunnia, che adesso irretisce pesantemente la libertà di stampa: eclissato dai dibattiti sulla seconda rielezione dell'onnipresente Alvaro Uribe.

"In Venezuela, invece, le aggressioni avvengono principalmente dallo Stato - denuncia la Federazione - attraverso attacchi di simpatizzanti del governo ai giornalisti e mediante i mancati rinnovi delle licenze ai mezzi di informazione dell'opposizione o semplicemente critici verso le politiche ufficiali". Questa la posizione della Federacion de periodistas, ma sul Venezuela va precisato che, secondo i dati dell'Osservatorio Internazionale sui Media, la gran parte dell'informazione è privata e apertamente schierata con l'opposizione. Tre quarti dei media non fanno che attaccare il governo di Hugo Chavez, dimenticando di perseguire la verità mantenendo una posizione super partes. Certo il ricorso alla violenza non è mai giustificato, nemmeno nel Venezuela bolivariano, dove si conta un giornalista assassinato negli ultimi dodici mesi.
Sono un centinaio, invece, quelli aggrediti nella Repubblica Dominicana, mentre in Honduras la situazione della libertà di stampa è ormai gravissima. Dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009, la repressione contro i media che si sono mostrati critici contro i golpisti è stata sistematica. Perseguitati anche i giornalisti internazionali accorsi nel paese. Due quelli uccisi.

Un peggioramento si è registrato anche nel democratico Brasile, l'unico paese che contemplava giuridicamente l'esigenza di un titolo professionale per esercitare il giornalismo, sbarramento che avrebbe dovuto garantire una certa qualità all'informazione. Avrebbe, dato che il Tribunale supremo, a cui erano ricorsi le lobby dell'editoria, ha appena tolto il paletto aprendo la strada a chicchessia.

Non va meglio in Perú dove, nonostante non sia siano registrati morti ammazzati tra i giornalisti, le aggressioni superano quelle di qualsiasi paese della regione: 180 casi. Il più emblematico, la chiusura forzata di Radio La Voz di Bagua, emittente indipendente castigata per motivi politici solo per aver reso pubblica la verità su quanto accaduto durante la mattanza per mano della polizia contro gli indigeni amazzonici del 5 giugno scorso.

Ottimi passi avanti invece in Argentina, dove è stata approvata la Legge dei Media, che combatte i monopoli dei mezzi d'informazione. Essendo stata redatta da sindacati, Ong e organizzazioni sociali e coordinata dalla Federazione argentina dei lavoratori della stampa è una legge esemplare per molte realtà.
Qualche gradino è stato salito anche dall'Uruguay, che è riuscito a ottenere la depenalizzazione dei reati a mezzo stampa.

http://it.peacereporter.net/articolo/19623/Trenta+morti+affossano+la+libert%26agrave%3B+di+stampa+latinoamericana

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