29 novembre, 2009
Con i resistenti in Honduras
Assalti ai media partecipativi e alle associazioni sospettate di favorire il boicottaggio proclamato dalla Resistenza delle elezioni farsa benedette dal Dipartimento di Stato. Mentre in Uruguay, contemporaneamente, le elezioni sono davvero una festa della democrazia in un altro punto della “Patria grande latinoamericana”, l’Honduras, le elezioni sono la fine della democrazia.
di Gennaro Carotenuto
Tegucigalpa si sveglia oggi in un’alba tragica nella quale ancora una volta, nella piena logica alla George Bush di esportazione della democrazia, ed esattamente come è avvenuto in Afghanistan, si svolgono “elezioni pur che siano”. Con brogli, senza opposizione, senza osservatori internazionali, mentre si violano i diritti umani. Non importa.
Se qualcuno va a votare, vedremo quanti saranno, allora il simulacro di democrazia è mantenuto anche se ad imporlo sono gli squadroni della morte. Era la filosofia di Donald Rumsfeld e lo rimane per Hillary Clinton.
Le elezioni di oggi, tra golpisti e per i golpisti, che ricordano quelle in Argentina negli anni ‘60 dove al partito che avrebbe vinto non era permesso partecipare, vanno ripudiate per due motivi.
In primo luogo perché sono la forma trovata da chi manovra il dittatore di Bergamo Alta Roberto Micheletti per essere un colpo di spugna sulle almeno 4.000 documentate violazioni dei diritti umani (dai 30 ai 100 morti) negli ultimi cinque mesi e per rilegittimare il colpo di stato stesso come strumento per la risoluzione di conflitti in America.
In secondo luogo perché sono la forma trovata dalle oligarchie, dai narcotrafficanti, dagli interessi delle grandi compagnie bananiere e dal Dipartimento statunitense di far tramontare anche quella pallidissima speranza di cambiamento rappresentata da Mel Zelaya, impedire il referendum per l’assemblea costituente e assicurare che in Honduras, il secondo paese più disgraziato, dopo Haiti, nel Continente, tutto resti uguale.
Zelaya non è Jacobo Arbenz. Se il golpe in Guatemala nel 1954, quando la sola promessa di una riforma agraria bastò a rovesciare tutti i cannoni della guerra fredda sul presidente, è di gran lunga ancora l’esempio principale per capire i fatti honduregni, sicuramente non vale la pena di “morire per Mel”. Ma solo quella “quarta urna” per chiedere un’Assemblea costituente, all’origine della quale vi fu il golpe, avrebbe potuto mettere in marcia progressiva il cambiamento dell’Honduras. Quella “quarta urna” era l’inizio del cambio che il golpe e adesso queste elezioni farsa hanno fatto deragliare.
Adesso, comunque vada oggi, la speranza violata non torna nelle catacombe in Honduras. Esiste un movimento popolare forgiato da cinque mesi (e cinquecento anni) di lotta contro il golpe. Ma soprattutto la speranza si chiama ancora una volta integrazione latinoamericana. L’attitudine dignitosa del governo brasiliano, che al contrario di quello statunitense, non riconoscerà la farsa di oggi, dà tutta la misura di quello che sta succedendo: o si sta con i paesi integrazionisti o si sta con la reazione dei Micheletti, degli Álvaro Uribe e dei Felipe Calderón.
Giornalismo partecipativo
di Gennaro Carotenuto
Tegucigalpa si sveglia oggi in un’alba tragica nella quale ancora una volta, nella piena logica alla George Bush di esportazione della democrazia, ed esattamente come è avvenuto in Afghanistan, si svolgono “elezioni pur che siano”. Con brogli, senza opposizione, senza osservatori internazionali, mentre si violano i diritti umani. Non importa.
Se qualcuno va a votare, vedremo quanti saranno, allora il simulacro di democrazia è mantenuto anche se ad imporlo sono gli squadroni della morte. Era la filosofia di Donald Rumsfeld e lo rimane per Hillary Clinton.
Le elezioni di oggi, tra golpisti e per i golpisti, che ricordano quelle in Argentina negli anni ‘60 dove al partito che avrebbe vinto non era permesso partecipare, vanno ripudiate per due motivi.
In primo luogo perché sono la forma trovata da chi manovra il dittatore di Bergamo Alta Roberto Micheletti per essere un colpo di spugna sulle almeno 4.000 documentate violazioni dei diritti umani (dai 30 ai 100 morti) negli ultimi cinque mesi e per rilegittimare il colpo di stato stesso come strumento per la risoluzione di conflitti in America.
In secondo luogo perché sono la forma trovata dalle oligarchie, dai narcotrafficanti, dagli interessi delle grandi compagnie bananiere e dal Dipartimento statunitense di far tramontare anche quella pallidissima speranza di cambiamento rappresentata da Mel Zelaya, impedire il referendum per l’assemblea costituente e assicurare che in Honduras, il secondo paese più disgraziato, dopo Haiti, nel Continente, tutto resti uguale.
Zelaya non è Jacobo Arbenz. Se il golpe in Guatemala nel 1954, quando la sola promessa di una riforma agraria bastò a rovesciare tutti i cannoni della guerra fredda sul presidente, è di gran lunga ancora l’esempio principale per capire i fatti honduregni, sicuramente non vale la pena di “morire per Mel”. Ma solo quella “quarta urna” per chiedere un’Assemblea costituente, all’origine della quale vi fu il golpe, avrebbe potuto mettere in marcia progressiva il cambiamento dell’Honduras. Quella “quarta urna” era l’inizio del cambio che il golpe e adesso queste elezioni farsa hanno fatto deragliare.
Adesso, comunque vada oggi, la speranza violata non torna nelle catacombe in Honduras. Esiste un movimento popolare forgiato da cinque mesi (e cinquecento anni) di lotta contro il golpe. Ma soprattutto la speranza si chiama ancora una volta integrazione latinoamericana. L’attitudine dignitosa del governo brasiliano, che al contrario di quello statunitense, non riconoscerà la farsa di oggi, dà tutta la misura di quello che sta succedendo: o si sta con i paesi integrazionisti o si sta con la reazione dei Micheletti, degli Álvaro Uribe e dei Felipe Calderón.
Giornalismo partecipativo
Etichette: Honduras
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