24 gennaio, 2010
URIBE, IL FEDELE PICCIOTTO DEL GRAN CAPITALE E DEL PADRONATO
di Darko Ramíres*
22 gennaio 2010
Da buon paramilitare al servizio della grande borghesia, Uribe, invece di assistere in questi giorni ai festeggiamenti per l’insediamento -all’insegna della continuità- del Presidente boliviano Evo Morales, si trova a Panama City per partecipare all’ennesimo incontro del ‘Consiglio Imprenditoriale dell’America Latina’.
In questa sede, una delle tante in cui le oligarchie nostrane pianificano insieme alla CIA ed alla Casa Bianca la “riconquista” totale dell’America Latina, il presidente narco-fascista ha tessuto ancora una volta le lodi del libero mercato, segnalando che “eliminare l’iniziativa privata vuol dire condannare i popoli a vivere nella povertá e nell’iniquitá” (sic!)
Evidentemente, la “libera iniziativa” cui fa riferimento il fu pupillo dell’estinto Pablo Escobar non è quella dei piccoli esercizi, degli appezzamenti di terra dei contadini piccoli e medi (a cui li sottrae con la violenza per alimentare il mostro del latifondismo), delle cooperative o delle piccole imprese con una qualche forma di utilità sociale.
Il riferimento, anche se non esplicito, è quello alle grandi imprese ed alle multi/transnazionali che impongono non benessere con equità e sviluppo sostenibile, bensì sfruttamento selvaggio della forza lavoro, saccheggio incontrollato delle risorse naturali della nostra Abya Yala, devastazione ecologica, licenziamenti a raffica, fughe di capitali, precarizzazione generalizzata del lavoro e della vita, disoccupazione e povertà a decine di milioni di colombiani (e latinoamericani).
Un’infame stoccata, del tutto causale e non casuale, alla recentissima espropriazione dei supermercati in Venezuela del colosso franco-colombiano Exito, che il Presidente Chávez ha decretato per bloccare la speculazione sui prezzi portata avanti senza soluzione di continuità dalla grande distribuzione privata, in chiave affaristica ma anche controrivoluzionaria e destabilizzatrice.
Uribe ha aggiunto che laddove “l’iniziativa privata è stata limitata, si è istaurata la pigrizia del popolo”, citando l’Unione Sovietica per “non parlare di esempi vicini” (ispe dixit), ossia Cuba e Venezuela. Si è però dimenticato di dire che la sua “iniziativa privata”, e cioè il capitalismo, fa acqua da tutte le parti, sta distruggendo il pianeta e getta nella miseria e nella fame sempre più persone in tutto il mondo, mentre Cuba e Venezuela sono esempi di dignità e giustizia sociale.Non soddisfatto, il mafioso del Palacio de Nariño ha dispensato la propria personalissima ricetta in cinque punti, per quello che ha definito “miglioramento democratico”: sicurezza, difesa delle libertà, coesione sociale, rispetto delle istituzioni democratiche che collaborino con gli obiettivi dello Stato e, dulcis in fundo, trasparenza.
Tante volte abbiamo udito e denunciato gli strilli di questo ladrone che grida “al ladro!”, ma questa volta si è coperto di ridicolo come non mai.
Infatti, costui confonde il terrorismo di Stato (di cui è il principale mandante) con la “sicurezza”, la difesa imperterrita della facoltà di assassinare, sfollare e incarcerare il popolo con “le libertà”, lo sterminio di chi lotta e resiste con la tanto cara ai ricchi “coesione sociale”, la concentrazione forzata dei poteri in stile fascista con la “difesa delle istituzioni”, e l’esecutivo più corrotto, clientelare, demagogico e compenetrato col paramilitarismo ed il narcotraffico che mai abbia governato la Colombia con la “trasparenza”.
La parabola di Uribe, molto più discendente di quanto molti non pensino, è fatta di narcotraffico, paramilitarismo, terrorismo di Stato, corruzione a tutti i livelli, svendita vergognosa della sovranità nazionale ed ecatombe morale, politica ed economica della Colombia. Solo un fascista della sua risma poteva bombardare paesi vicini come l’Ecuador, mandare militari e paramilitari (cioè la stessa cosa) in Iraq e in Afganistan, riconoscere e sostenere il fraudolento regime nato dal golpe made in USA in Honduras, congratularsi per primo con il neoeletto pinochetista cileno Piñera, regalare il Paese al South Com del Pentagono e lavorare a testa bassa per togliere di mezzo Chávez e la Rivoluzione Bolivariana.
Uribe, oltre ad essere una velenosa marionetta dell’imperialismo in America Latina, è un fedele e ligio picciotto al servigio del padronato criollo. E’ alle dipendenze, dunque, dei due poteri forti che hanno in comune un orizzonte strategico di difesa della loro egemonia/dominazione, nonché l’impellenza tattica di far pagare la crisi strutturale e sistemica del capitalismo ai popoli, sulle cui spalle essa va scaricata a qualunque costo.
Un criminale così, acerrimo nemico della pace con giustizia sociale ed autore intellettuale e materiale di innumerevoli crimini di lesa umanità, non può restare impunito. Qualora, una volta privo della blindatura e dell’impunità presidenziali, la cosiddetta giustizia internazionale non lo perseguisse alla stregua di Fujimori (altro dittatore decaduto), ci penserà la giustizia popolare, con tutto il rigore e la determinazione del caso, a presentargli il conto con gli interessi!
*Analista politico ecuatoriano
Traduzione a cura dell’Associazione nazionale Nuova Colombia
www.nuovacolombia.net
http://www.nuovacolombia.net
22 gennaio 2010
Da buon paramilitare al servizio della grande borghesia, Uribe, invece di assistere in questi giorni ai festeggiamenti per l’insediamento -all’insegna della continuità- del Presidente boliviano Evo Morales, si trova a Panama City per partecipare all’ennesimo incontro del ‘Consiglio Imprenditoriale dell’America Latina’.
In questa sede, una delle tante in cui le oligarchie nostrane pianificano insieme alla CIA ed alla Casa Bianca la “riconquista” totale dell’America Latina, il presidente narco-fascista ha tessuto ancora una volta le lodi del libero mercato, segnalando che “eliminare l’iniziativa privata vuol dire condannare i popoli a vivere nella povertá e nell’iniquitá” (sic!)
Evidentemente, la “libera iniziativa” cui fa riferimento il fu pupillo dell’estinto Pablo Escobar non è quella dei piccoli esercizi, degli appezzamenti di terra dei contadini piccoli e medi (a cui li sottrae con la violenza per alimentare il mostro del latifondismo), delle cooperative o delle piccole imprese con una qualche forma di utilità sociale.
Il riferimento, anche se non esplicito, è quello alle grandi imprese ed alle multi/transnazionali che impongono non benessere con equità e sviluppo sostenibile, bensì sfruttamento selvaggio della forza lavoro, saccheggio incontrollato delle risorse naturali della nostra Abya Yala, devastazione ecologica, licenziamenti a raffica, fughe di capitali, precarizzazione generalizzata del lavoro e della vita, disoccupazione e povertà a decine di milioni di colombiani (e latinoamericani).
Un’infame stoccata, del tutto causale e non casuale, alla recentissima espropriazione dei supermercati in Venezuela del colosso franco-colombiano Exito, che il Presidente Chávez ha decretato per bloccare la speculazione sui prezzi portata avanti senza soluzione di continuità dalla grande distribuzione privata, in chiave affaristica ma anche controrivoluzionaria e destabilizzatrice.
Uribe ha aggiunto che laddove “l’iniziativa privata è stata limitata, si è istaurata la pigrizia del popolo”, citando l’Unione Sovietica per “non parlare di esempi vicini” (ispe dixit), ossia Cuba e Venezuela. Si è però dimenticato di dire che la sua “iniziativa privata”, e cioè il capitalismo, fa acqua da tutte le parti, sta distruggendo il pianeta e getta nella miseria e nella fame sempre più persone in tutto il mondo, mentre Cuba e Venezuela sono esempi di dignità e giustizia sociale.Non soddisfatto, il mafioso del Palacio de Nariño ha dispensato la propria personalissima ricetta in cinque punti, per quello che ha definito “miglioramento democratico”: sicurezza, difesa delle libertà, coesione sociale, rispetto delle istituzioni democratiche che collaborino con gli obiettivi dello Stato e, dulcis in fundo, trasparenza.
Tante volte abbiamo udito e denunciato gli strilli di questo ladrone che grida “al ladro!”, ma questa volta si è coperto di ridicolo come non mai.
Infatti, costui confonde il terrorismo di Stato (di cui è il principale mandante) con la “sicurezza”, la difesa imperterrita della facoltà di assassinare, sfollare e incarcerare il popolo con “le libertà”, lo sterminio di chi lotta e resiste con la tanto cara ai ricchi “coesione sociale”, la concentrazione forzata dei poteri in stile fascista con la “difesa delle istituzioni”, e l’esecutivo più corrotto, clientelare, demagogico e compenetrato col paramilitarismo ed il narcotraffico che mai abbia governato la Colombia con la “trasparenza”.
La parabola di Uribe, molto più discendente di quanto molti non pensino, è fatta di narcotraffico, paramilitarismo, terrorismo di Stato, corruzione a tutti i livelli, svendita vergognosa della sovranità nazionale ed ecatombe morale, politica ed economica della Colombia. Solo un fascista della sua risma poteva bombardare paesi vicini come l’Ecuador, mandare militari e paramilitari (cioè la stessa cosa) in Iraq e in Afganistan, riconoscere e sostenere il fraudolento regime nato dal golpe made in USA in Honduras, congratularsi per primo con il neoeletto pinochetista cileno Piñera, regalare il Paese al South Com del Pentagono e lavorare a testa bassa per togliere di mezzo Chávez e la Rivoluzione Bolivariana.
Uribe, oltre ad essere una velenosa marionetta dell’imperialismo in America Latina, è un fedele e ligio picciotto al servigio del padronato criollo. E’ alle dipendenze, dunque, dei due poteri forti che hanno in comune un orizzonte strategico di difesa della loro egemonia/dominazione, nonché l’impellenza tattica di far pagare la crisi strutturale e sistemica del capitalismo ai popoli, sulle cui spalle essa va scaricata a qualunque costo.
Un criminale così, acerrimo nemico della pace con giustizia sociale ed autore intellettuale e materiale di innumerevoli crimini di lesa umanità, non può restare impunito. Qualora, una volta privo della blindatura e dell’impunità presidenziali, la cosiddetta giustizia internazionale non lo perseguisse alla stregua di Fujimori (altro dittatore decaduto), ci penserà la giustizia popolare, con tutto il rigore e la determinazione del caso, a presentargli il conto con gli interessi!
*Analista politico ecuatoriano
Traduzione a cura dell’Associazione nazionale Nuova Colombia
www.nuovacolombia.net
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Etichette: America Latina
21 gennaio, 2010
Terremoto neoliberale ad Haiti
Frei Gilvander Moreira
“Le bande seminano il terrore ad Haiti”, ripetono incessantemente i media, etichettando il popolo hatiano come violento.. Sarà così? Sarà questa natura indomabile la principale responsabile delle sofferenze senza misura che si è abbattuta sul popolo ? Riflettiamo.
Haiti fu invaso brutalmente dalle truppe navali degli Stati Uniti tra il 1915 e il 1934. Innumerevoli dittature furono aiutate e appoggiate da Washington.
Nel 2004, durante un golpe militare, il presidente di Haiti, Jean-Bertrand Aristide, democraticamente eletto, fu sequestrato dagli USA e portato con un aereo in esilio in Africa.
USA, Canada e Francia avevano cospirato apertamente quattro anni per sconfiggere il governo di Aristide, tagliando quesi tutti gli aiuti internazionali e distruggendo l'economia haitiana.
“Il primo governo democratico di Aristide fu sconfitto dopo soli 7 mesi, nel 1991, da militari e squadroni della morte, che successivamente si scoprì essere stati finanziati dalla CIA.
Aristide vuole ritornare al suo paese, cosa che la maggioranza del popolo haitiano rivendica fin d'allora, ma gli Stati Uniti non lo vogliono lì.
E il governo Preval, completamente dipendente da Washington, ha deciso che il partito di Aristide – il maggiore di Haiti – non sarà autorizzato a partecipare alle prossime elezioni (previste originalmente per Febbraio 2010)”, informa Mark Wesbrot (FSP, 19/01/2010, p. A3).
Dopo aver espulso il dittatore Jean-Claude Duvalier, Baby Doc, di Haiti, Jean-Bertrand, sacerdote cattolico e teologo della Liberazione, di umili origini, vinse, con più di due terzi dei voti, le prime elezioni libere realizzate in Haiti (dicembre, 1990), diventando il simbolo delle speranze popolari. Dopo aver preso le prime misure contro la corruzione e le carenze economiche, fu deposto dai militari, sotto il comando del general Raoul Cédras..
L'elezione di Aristide era stata il frutto di un processo di organizzazione popolare che avrebbe portato Haiti alla giustizia sociale e, probabilmente, a una società socialista.
Si sarebbe creata una seconda Cuba in barba allo Zio Sam.
Per questo pivatizzazione neoliberale, golpe militare, ingerenza militare, elemosina ...
Dal 1984, il Fondo Monetario Internazionale ha obbligato Haiti a liberarizzare il suo mercato. Gli scarsi e ultimi servizi pubblici furono privatizzati, negando l'accesso al popolo marginalizzato. Nel 1970, Haiti produceva il 90% degli alimenti che consumava, attualmente importa 55%.
Il riso statounitense sovvenzionato ha ammazzato la produzione locale.
In agosto e settembre 2008, l'aumento enorme dei prezzi degli alimenti ha provocato un aumento dei prezzi in Haiti del 50%, provocando rivolte degli affamati.
La Croce Rossa dice che gli haitiani sono ‘aggressivi’ di fronte alla mancanza di alimenti.
Il 18 gennaio 2010, il segretario-generale dell'ONU, Ban Ki-moon, in visita a Porto Principe, ha udito nelle strade il popolo haitiano gridare “non abbiamo bisogno di aiuto militare; abbiamo bisogno di cibo e ricovero. Stiamo morendo.”
Il Banco Mondiale, il FMI, il Banco Interamericano di Sviluppo e molte imprese multinazionali da decenni hanno cinicamente gettato la società haitiana in un inferno sociale.
La situazione di grande parte del popolo haitiano da molto tempo assomiglia ai milioni di brasiliani che sopravvivono nelle favele e nelle prigioni brasiliane: troppo poveri e troppo negri per partecipare alla Casa Grande , i quartieri nobili delle città.
Senza riforma agraria, con un appoggio illimitato all'agrobusiness, cinquanta milioni di brasiliani sono stati spinti dalla classe dominante nelle attuali “senzalas” (alloggiamenti degli schiavi), le favele brasiliane dove le prigioni sono il “pelourinho”.
Ha ragione Caetano Veloso quando dice " Haiti é qui...”.
Tanto ad Haiti come in Brasile (e America Latina, Africa e Asia), le politiche neoliberali stanno causando il più tenebroso terremoto sociale.
Un terremoto naturale, come quello di 7 gradi della scala Richter che ha colpito Haiti il 12 gennaio 2010, si può imputare alla fatalità, ma il vergognoso e insopportabile impoverimento delle popolazioni urbane e rurali di Haiti, no.
Il Governo brasiliano certamente difende il ripristino della democrazia in Honduras.
Perchè non difendere la democrazia anche per Haiti? Per questo dovrebbe inviare ad Haiti, come minimo, tre mila medici, assistenti sociali e leader popolari (con le infrastrutture per attuarle) e far tornareindietro quasi tutti i 1200 militari che sono lì.
Noi non dimentichiamo: Haiti è stato il primo paese latino americano a conquistare la sua independenza nel 1804, con una insurrezione degli schiavi che sconfisse gli invasori francesi .
Il popolo negro haitiano ha inspirato tutte le lotte per l'indipendenza nella nostra Patria Grande, l'America afrolatindia.
La sete di vita e di libertà del popolo negro di Haiti è stata repressa secolarmente dai vassali di un sistema di morte: il capitalismo neoliberale.
Belo Horizonte, 19/01/2010.
“Le bande seminano il terrore ad Haiti”, ripetono incessantemente i media, etichettando il popolo hatiano come violento.. Sarà così? Sarà questa natura indomabile la principale responsabile delle sofferenze senza misura che si è abbattuta sul popolo ? Riflettiamo.
Haiti fu invaso brutalmente dalle truppe navali degli Stati Uniti tra il 1915 e il 1934. Innumerevoli dittature furono aiutate e appoggiate da Washington.
Nel 2004, durante un golpe militare, il presidente di Haiti, Jean-Bertrand Aristide, democraticamente eletto, fu sequestrato dagli USA e portato con un aereo in esilio in Africa.
USA, Canada e Francia avevano cospirato apertamente quattro anni per sconfiggere il governo di Aristide, tagliando quesi tutti gli aiuti internazionali e distruggendo l'economia haitiana.
“Il primo governo democratico di Aristide fu sconfitto dopo soli 7 mesi, nel 1991, da militari e squadroni della morte, che successivamente si scoprì essere stati finanziati dalla CIA.
Aristide vuole ritornare al suo paese, cosa che la maggioranza del popolo haitiano rivendica fin d'allora, ma gli Stati Uniti non lo vogliono lì.
E il governo Preval, completamente dipendente da Washington, ha deciso che il partito di Aristide – il maggiore di Haiti – non sarà autorizzato a partecipare alle prossime elezioni (previste originalmente per Febbraio 2010)”, informa Mark Wesbrot (FSP, 19/01/2010, p. A3).
Dopo aver espulso il dittatore Jean-Claude Duvalier, Baby Doc, di Haiti, Jean-Bertrand, sacerdote cattolico e teologo della Liberazione, di umili origini, vinse, con più di due terzi dei voti, le prime elezioni libere realizzate in Haiti (dicembre, 1990), diventando il simbolo delle speranze popolari. Dopo aver preso le prime misure contro la corruzione e le carenze economiche, fu deposto dai militari, sotto il comando del general Raoul Cédras..
L'elezione di Aristide era stata il frutto di un processo di organizzazione popolare che avrebbe portato Haiti alla giustizia sociale e, probabilmente, a una società socialista.
Si sarebbe creata una seconda Cuba in barba allo Zio Sam.
Per questo pivatizzazione neoliberale, golpe militare, ingerenza militare, elemosina ...
Dal 1984, il Fondo Monetario Internazionale ha obbligato Haiti a liberarizzare il suo mercato. Gli scarsi e ultimi servizi pubblici furono privatizzati, negando l'accesso al popolo marginalizzato. Nel 1970, Haiti produceva il 90% degli alimenti che consumava, attualmente importa 55%.
Il riso statounitense sovvenzionato ha ammazzato la produzione locale.
In agosto e settembre 2008, l'aumento enorme dei prezzi degli alimenti ha provocato un aumento dei prezzi in Haiti del 50%, provocando rivolte degli affamati.
La Croce Rossa dice che gli haitiani sono ‘aggressivi’ di fronte alla mancanza di alimenti.
Il 18 gennaio 2010, il segretario-generale dell'ONU, Ban Ki-moon, in visita a Porto Principe, ha udito nelle strade il popolo haitiano gridare “non abbiamo bisogno di aiuto militare; abbiamo bisogno di cibo e ricovero. Stiamo morendo.”
Il Banco Mondiale, il FMI, il Banco Interamericano di Sviluppo e molte imprese multinazionali da decenni hanno cinicamente gettato la società haitiana in un inferno sociale.
La situazione di grande parte del popolo haitiano da molto tempo assomiglia ai milioni di brasiliani che sopravvivono nelle favele e nelle prigioni brasiliane: troppo poveri e troppo negri per partecipare alla Casa Grande , i quartieri nobili delle città.
Senza riforma agraria, con un appoggio illimitato all'agrobusiness, cinquanta milioni di brasiliani sono stati spinti dalla classe dominante nelle attuali “senzalas” (alloggiamenti degli schiavi), le favele brasiliane dove le prigioni sono il “pelourinho”.
Ha ragione Caetano Veloso quando dice " Haiti é qui...”.
Tanto ad Haiti come in Brasile (e America Latina, Africa e Asia), le politiche neoliberali stanno causando il più tenebroso terremoto sociale.
Un terremoto naturale, come quello di 7 gradi della scala Richter che ha colpito Haiti il 12 gennaio 2010, si può imputare alla fatalità, ma il vergognoso e insopportabile impoverimento delle popolazioni urbane e rurali di Haiti, no.
Il Governo brasiliano certamente difende il ripristino della democrazia in Honduras.
Perchè non difendere la democrazia anche per Haiti? Per questo dovrebbe inviare ad Haiti, come minimo, tre mila medici, assistenti sociali e leader popolari (con le infrastrutture per attuarle) e far tornareindietro quasi tutti i 1200 militari che sono lì.
Noi non dimentichiamo: Haiti è stato il primo paese latino americano a conquistare la sua independenza nel 1804, con una insurrezione degli schiavi che sconfisse gli invasori francesi .
Il popolo negro haitiano ha inspirato tutte le lotte per l'indipendenza nella nostra Patria Grande, l'America afrolatindia.
La sete di vita e di libertà del popolo negro di Haiti è stata repressa secolarmente dai vassali di un sistema di morte: il capitalismo neoliberale.
Belo Horizonte, 19/01/2010.
Etichette: Centro America y Caribe
20 gennaio, 2010
RESOCONTO DEI FATTI E DEL RECUPERO DELLE TERRE DELLA RIFORMA AGRARIA IN HONDURAS
Movimento Unificato Contadino dell’Aguan (MUCA)
Agli inizi degli anni ’70, durante l'amministrazione dell'ex-presidente Ramón Villeda Morales, era stata promulgata in Honduras la Legge di Riforma Agraria, mediante la quale erano stati conferiti diritti di proprietà di terre nazionali e private a centinaia di famiglie di contadini poveri. Tale legge nacque in conseguenza degli impegni internazionali sottoscritti a Punta del Este in Uruguay, nell’ambito dell'Alleanza per il Progresso. Fu dunque dagli inizi degli anni ’70, col governo militare di Oswaldo López Arellano, che si organizzarono più di 84 cooperative, delle quali 57 orientate a coltivare ed industrializzare olio di palma africana. Perciò questa zona è tuttora conosciuta come “capitale della riforma agraria”.
Agli inizi degli anni ‘90, durante l'amministrazione di Rafael Leonardo Callejas, fu approvata in Honduras la Legge per la Modernizzazione e Sviluppo del Settore Agricolo e, con essa, si organizzò un piano per espropriare le imprese contadine dai diritti che lo Stato aveva loro attribuito alla metà della decade degli anni ’70, su migliaia di ettari coltivati a palma africana (Elaeis guinensis) nella regione conosciuta come il Bajo Aguan, nel dipartimento settentrionale della costa atlantica dell’Honduras. La legge menzionata diventò la strategia politica di funzionari statali in combutta con imprenditori avidi, per divenire proprietari di 20.000 ettari delle migliori terre del paese (approssimativamente 28.000 appezzamenti o 48.000 acri).
In base alla Legge di Modernizzazione, negli anni ‘90 si avviò quindi un processo di compravendita di cooperative, che si concluse con la cessione degli attivi di 40 imprese contadine, che si concentrarono nelle mani di Miguel Facuse, René Morales e Reinaldo Canales. Questo fenomeno continua ad essere oggetto d’indagine, per la molteplicità di errori e violazioni della legge, perpetrati con l'obiettivo di garantire agli impresari menzionati di appropriarsi degli attivi delle cooperative.
A partire dal 1998 membri delle cooperative che cedettero i loro attivi iniziarono ad investigare le motivazioni e l’ambito giuridico delle vendite, come descritto dal documento Domanda di Nullità di Atti Pubblici, autorizzato il 2 gennaio 1994 e presentato il 30 aprile 2009 (documento disponibile in questo blog). L'atto di compravendita stabiliva che gli acquirenti menzionati utilizzassero la terra per coltivazione e produzione, ma che la proprietà della terra restasse nelle mani allo Stato e ad uso esclusivo della riforma agraria. Parallelamente alla compravendita si era scatenata una campagna d’intimidazione e minacce di morte nei confronti dei dirigenti che si opponevano alle contrattazioni, non così verso quei leader contadini che si prestavano a negoziare il patrimonio appartenente a tutti i membri delle cooperative.
Nel novembre 2001 si organizzava il Movimento Unito Contadino dell’Aguan (MUCA), con la partecipazione di 28 gruppi di contadini non beneficiari della riforma agraria. Questa struttura organizzativa fondava il nuovo movimento contadino intorno al legittimo reclamo delle terre, che dagli anni ‘70 erano state riservate alla riforma agraria e che erano poi passate in modo fraudolento in mano ad impresari corrotti.
L’inchiesta giuridica riuscì a dimostrare l'illegalità del commercio degli attivi delle cooperative e sfociò, ancora una volta, nella richiesta di nuovi gruppi riguardo alle terre che non erano mai state intestate a nome degli imprenditori acquirenti, ma ai quali lo Stato riconobbe soltanto il diritti d’uso sotto forma di concessione fino a febbraio 2005. (Vedere il documento: Certificato di Inalienabilità, febbraio 2002).
Dall'anno 2004 il MUCA ha presentato domande d’annullamento delle vendite ed ingiunzioni di chiarimento giuridico sulla situazione delle terre e dei diritti legittimi dei contadini organizzati, secondo quanto stabilito dalla Legge di Riforma Agraria del 1962. Nel febbraio del 2006, in occasione della dichiarazione dell’uscita pubblica del MUCA, 7000 contadini in protesta pacifica occuparono la strada all'altezza di Tocoa, rivendicando i diritti sulle terre liberate dalla concessione, protesta che venne poi chiamata l’“Occupazione dei 5000 Machetes". In quella data si negoziò un accordo generale in 12 punti, presentati dai contadini e dal movimento popolare. In esso si sollecitava il pubblico ministero con sede a Tocoa, Colón, a portare a termine l'inchiesta attinente; inoltre i rappresentanti del governo centrale s’impegnarono nelle procedure per un'udienza davanti al pubblico ministero generale dello Stato e con la presidentessa della Corte Suprema di Giustizia, Vilma Morales, col fine di esaudire le richieste del MUCA.
Il MUCA il 3 marzo 2009 inoltrò una Proposta di Accordi Negoziabili, tra governo, imprenditori e contadini mediante una commissione di dialogo, presentata ed offerta al presidente costituzionale Sig. Manuel Zelaya Rosales, per risolvere tale problema.
Le organizzazioni contadine proponevano quanto segue:
1 - Avere come interlocutore e mediatore il presidente della repubblica, il ministro dell'INA e quello dell’Interno e Giustizia.
2 - Puntare alla restituzione delle terre appartenenti a 29 cooperative, terre acquistate in modo scorretto, violando la legge delle cooperative.
3 - Procedere ad una valutazione per ciascuna cooperativa venduta, per determinarne i progressi, essendo il governo centrale garante del settore contadino, in modo da rimborsare i miglioramenti attraverso i buoni della riforma agraria, nonchè sostenere la produzione agricola per la lotta alla povertà.
4 - A conclusione degli accordi, il potere esecutivo dovrà emettere un decreto o atto esecutivo che preveda la firma di un protocollo con gli avvocati dei contadini, degli imprenditori e del governo, in cui siano stabilite tutte le norme e gli impegni tra tutte le parti in conflitto, da pubblicare sulla gazzetta ufficiale.
5 - I termini degli accordi saranno decisi consensualmente tra le parti, previa conoscenza dei beni e miglioramenti presentati dagli attuali occupanti delle terre. In questo senso attuerà una commissione negoziatrice tripartita coordinata dal titolare dell'INA.
6 - Le organizzazioni contadine e popolari della regione dell’Aguan sollecitano il governo costituzionale al massimo sforzo per risolvere un problema che, se trascurato nell’immediato, potrebbe deflagrare costando vite e lamenti tra le parti responsabili, a causa della negligenza con cui le autorità dello stato operano contro i più bisognosi di questa patria.
Il 28 maggio 2009 il MUCA avviò l’occupazione delle installazioni dell’impianto per l’estrazione di olio, di Miguel Facuse, come misura di pressione, affinché lo Stato rispondesse al mancato compimento degli impegni firmati. In quella data venne firmato un nuovo accordo, con una missione del Governo Centrale ed il Presidente della Repubblica Manuel Zelaya Rosales, attraverso cui destinare risorse dello Stato per dirimere la situazione legale delle terre e permetterne l’accesso ai contadini. (Vedere: Verbale di Accordo col Governo - 12 giugno 2009).
Il 12 giugno arrivò a Tocoa una commissione condotta dal ministro dell'INA, il vice ministro di agricoltura ed allevamento, il vice ministro della presidenza, il sindaco di Tocoa ed il delegato dipartimentale di polizia il Sig. Kenee Sabellon Flores, che si riunirono con la commissione dei rappresentanti dell'organizzazione MUCA, accompagnata dal consulente agrario della zona. Si concordò di sottoscrivere il verbale d’intesa per formare una commissione tecnico-giuridica, composta da rappresentanti dell'INA, coordinata da un rappresentante della segretaria di agricoltura del governo e cinque rappresentanti del MUCA, oltre a Fabio Evelio Ochoa, in qualità di consulente agrario dei contadini.
Il MUCA s’impegnò a rimuovere in modo pacifico e temporaneo l’occupazione dell'accesso all’impianto per l’estrazione di olio, mentre si portava a termine l'analisi tecnico-giuridica di ognuno dei casi presentati dal Movimento Unificato Contadino dell’Aguan. Questi accordi furono firmati dal presidente José Manuel Zelaya Rosales il 19 giugno del 2009 a Tocoa, Colon.
Gli accordi si stavano già effettivamente compiendo, dal momento che la commissione tecnico-giuridica arrivò in zona il 21 giugno per iniziare il lavoro. Il 23 giugno si stabilì una riunione tra i rappresentanti del MUCA, Fabio Ochoa ed il direttore dell'INA, nelle strutture della stessa a Sinaloa, Tocoa. In quel medesimo giorno, poche ore dopo questa riunione, il compagno Fabio Evelio Ochoa subiva un attentato criminale partito da un’auto privata.
Il 25 giugno si recò a Trujillo a sollecitare all'Istituto della Proprietà l'estratto di successione e di libertà dagli oneri delle 14 cooperative. Tuttavia, per gli eventi verificatisi col colpo di Stato dall'alba del 28 giugno 2009, il processo concordato si ruppe ed il MUCA si vide obbligato ad iniziare la lotta nelle strade per esigere il ritorno all'ordine costituzionale, ed all’occupazione delle terre come azione rivendicativa. Nel dicembre 2009 incominciarono le occupazioni, conformemente al punto 5 degli accordi firmati dal governo nel giugno dello stesso anno.
A causa dell'inadempienza, il 9 dicembre 2009 cominciò il recupero definitivo delle terre, ottenendo un primo blocco di 958 ettari appartenenti alla cooperativa La Confianza, 720 ettari della cooperativa La Aurora e 786 della cooperativa San Isidro, tutte nel municipio di Tocoa; e 665 ettari della cooperativa San Esteban nel Municipio di Trujillo
La documentazione legale in possesso del MUCA supporta e dimostra che i Sig.ri. Miguel Facuse, Reinaldo Canales e René Morales non sono padroni delle terre rubate a 29 cooperative contadine. Si condanna la posizione del pubblico ministero nel difendere gli interessi degli imprenditori, occultando gravi violazioni alle leggi del paese ed ai diritti di migliaia di contadini senza terra. Sono già vent’anni che il caso della compravendita di terre delle cooperative contadine non trova soluzione da parte dello Stato, aggravando con ciò la crisi tra contadini e proprietari terrieri.
Denunciamo la campagna di persecuzione, minacce di morte ed ordini di cattura nei confronti di oltre 16 compagni contadini da parte di impresari, militari e funzionari dello Stato. Riteniamo anche responsabili Miguel Facuse, René Morales e Reinaldo Canales di qualunque attentato o repressione che possiamo subire noi, dirigenti o membri del movimento contadino dell’Aguan.
Infine condanniamo la maniera assurda in cui si vuole macchiare l'immagine del movimento contadino, affibiandoci la colpa di azioni criminali in cui non abbiamo alcuna implicazione. Riaffermiamo che la nostra lotta è pacifica e pertanto respingiamo la presenza delle forze armate, che rispondono soltanto agli interessi dei proprietari terrieri ed impresari corrotti del paese.
Movimento Unificato Contadino dell’ Aguan (MUCA)
"Non siamo pesci per vivere dell'acqua, né uccelli per vivere dell'aria; siamo uomini e donne per vivere della terra"
www.movimientomuca.blogspot.com
Tradotto da Adelina Bottero
Agli inizi degli anni ’70, durante l'amministrazione dell'ex-presidente Ramón Villeda Morales, era stata promulgata in Honduras la Legge di Riforma Agraria, mediante la quale erano stati conferiti diritti di proprietà di terre nazionali e private a centinaia di famiglie di contadini poveri. Tale legge nacque in conseguenza degli impegni internazionali sottoscritti a Punta del Este in Uruguay, nell’ambito dell'Alleanza per il Progresso. Fu dunque dagli inizi degli anni ’70, col governo militare di Oswaldo López Arellano, che si organizzarono più di 84 cooperative, delle quali 57 orientate a coltivare ed industrializzare olio di palma africana. Perciò questa zona è tuttora conosciuta come “capitale della riforma agraria”.
Agli inizi degli anni ‘90, durante l'amministrazione di Rafael Leonardo Callejas, fu approvata in Honduras la Legge per la Modernizzazione e Sviluppo del Settore Agricolo e, con essa, si organizzò un piano per espropriare le imprese contadine dai diritti che lo Stato aveva loro attribuito alla metà della decade degli anni ’70, su migliaia di ettari coltivati a palma africana (Elaeis guinensis) nella regione conosciuta come il Bajo Aguan, nel dipartimento settentrionale della costa atlantica dell’Honduras. La legge menzionata diventò la strategia politica di funzionari statali in combutta con imprenditori avidi, per divenire proprietari di 20.000 ettari delle migliori terre del paese (approssimativamente 28.000 appezzamenti o 48.000 acri).
In base alla Legge di Modernizzazione, negli anni ‘90 si avviò quindi un processo di compravendita di cooperative, che si concluse con la cessione degli attivi di 40 imprese contadine, che si concentrarono nelle mani di Miguel Facuse, René Morales e Reinaldo Canales. Questo fenomeno continua ad essere oggetto d’indagine, per la molteplicità di errori e violazioni della legge, perpetrati con l'obiettivo di garantire agli impresari menzionati di appropriarsi degli attivi delle cooperative.
A partire dal 1998 membri delle cooperative che cedettero i loro attivi iniziarono ad investigare le motivazioni e l’ambito giuridico delle vendite, come descritto dal documento Domanda di Nullità di Atti Pubblici, autorizzato il 2 gennaio 1994 e presentato il 30 aprile 2009 (documento disponibile in questo blog). L'atto di compravendita stabiliva che gli acquirenti menzionati utilizzassero la terra per coltivazione e produzione, ma che la proprietà della terra restasse nelle mani allo Stato e ad uso esclusivo della riforma agraria. Parallelamente alla compravendita si era scatenata una campagna d’intimidazione e minacce di morte nei confronti dei dirigenti che si opponevano alle contrattazioni, non così verso quei leader contadini che si prestavano a negoziare il patrimonio appartenente a tutti i membri delle cooperative.
Nel novembre 2001 si organizzava il Movimento Unito Contadino dell’Aguan (MUCA), con la partecipazione di 28 gruppi di contadini non beneficiari della riforma agraria. Questa struttura organizzativa fondava il nuovo movimento contadino intorno al legittimo reclamo delle terre, che dagli anni ‘70 erano state riservate alla riforma agraria e che erano poi passate in modo fraudolento in mano ad impresari corrotti.
L’inchiesta giuridica riuscì a dimostrare l'illegalità del commercio degli attivi delle cooperative e sfociò, ancora una volta, nella richiesta di nuovi gruppi riguardo alle terre che non erano mai state intestate a nome degli imprenditori acquirenti, ma ai quali lo Stato riconobbe soltanto il diritti d’uso sotto forma di concessione fino a febbraio 2005. (Vedere il documento: Certificato di Inalienabilità, febbraio 2002).
Dall'anno 2004 il MUCA ha presentato domande d’annullamento delle vendite ed ingiunzioni di chiarimento giuridico sulla situazione delle terre e dei diritti legittimi dei contadini organizzati, secondo quanto stabilito dalla Legge di Riforma Agraria del 1962. Nel febbraio del 2006, in occasione della dichiarazione dell’uscita pubblica del MUCA, 7000 contadini in protesta pacifica occuparono la strada all'altezza di Tocoa, rivendicando i diritti sulle terre liberate dalla concessione, protesta che venne poi chiamata l’“Occupazione dei 5000 Machetes". In quella data si negoziò un accordo generale in 12 punti, presentati dai contadini e dal movimento popolare. In esso si sollecitava il pubblico ministero con sede a Tocoa, Colón, a portare a termine l'inchiesta attinente; inoltre i rappresentanti del governo centrale s’impegnarono nelle procedure per un'udienza davanti al pubblico ministero generale dello Stato e con la presidentessa della Corte Suprema di Giustizia, Vilma Morales, col fine di esaudire le richieste del MUCA.
Il MUCA il 3 marzo 2009 inoltrò una Proposta di Accordi Negoziabili, tra governo, imprenditori e contadini mediante una commissione di dialogo, presentata ed offerta al presidente costituzionale Sig. Manuel Zelaya Rosales, per risolvere tale problema.
Le organizzazioni contadine proponevano quanto segue:
1 - Avere come interlocutore e mediatore il presidente della repubblica, il ministro dell'INA e quello dell’Interno e Giustizia.
2 - Puntare alla restituzione delle terre appartenenti a 29 cooperative, terre acquistate in modo scorretto, violando la legge delle cooperative.
3 - Procedere ad una valutazione per ciascuna cooperativa venduta, per determinarne i progressi, essendo il governo centrale garante del settore contadino, in modo da rimborsare i miglioramenti attraverso i buoni della riforma agraria, nonchè sostenere la produzione agricola per la lotta alla povertà.
4 - A conclusione degli accordi, il potere esecutivo dovrà emettere un decreto o atto esecutivo che preveda la firma di un protocollo con gli avvocati dei contadini, degli imprenditori e del governo, in cui siano stabilite tutte le norme e gli impegni tra tutte le parti in conflitto, da pubblicare sulla gazzetta ufficiale.
5 - I termini degli accordi saranno decisi consensualmente tra le parti, previa conoscenza dei beni e miglioramenti presentati dagli attuali occupanti delle terre. In questo senso attuerà una commissione negoziatrice tripartita coordinata dal titolare dell'INA.
6 - Le organizzazioni contadine e popolari della regione dell’Aguan sollecitano il governo costituzionale al massimo sforzo per risolvere un problema che, se trascurato nell’immediato, potrebbe deflagrare costando vite e lamenti tra le parti responsabili, a causa della negligenza con cui le autorità dello stato operano contro i più bisognosi di questa patria.
Il 28 maggio 2009 il MUCA avviò l’occupazione delle installazioni dell’impianto per l’estrazione di olio, di Miguel Facuse, come misura di pressione, affinché lo Stato rispondesse al mancato compimento degli impegni firmati. In quella data venne firmato un nuovo accordo, con una missione del Governo Centrale ed il Presidente della Repubblica Manuel Zelaya Rosales, attraverso cui destinare risorse dello Stato per dirimere la situazione legale delle terre e permetterne l’accesso ai contadini. (Vedere: Verbale di Accordo col Governo - 12 giugno 2009).
Il 12 giugno arrivò a Tocoa una commissione condotta dal ministro dell'INA, il vice ministro di agricoltura ed allevamento, il vice ministro della presidenza, il sindaco di Tocoa ed il delegato dipartimentale di polizia il Sig. Kenee Sabellon Flores, che si riunirono con la commissione dei rappresentanti dell'organizzazione MUCA, accompagnata dal consulente agrario della zona. Si concordò di sottoscrivere il verbale d’intesa per formare una commissione tecnico-giuridica, composta da rappresentanti dell'INA, coordinata da un rappresentante della segretaria di agricoltura del governo e cinque rappresentanti del MUCA, oltre a Fabio Evelio Ochoa, in qualità di consulente agrario dei contadini.
Il MUCA s’impegnò a rimuovere in modo pacifico e temporaneo l’occupazione dell'accesso all’impianto per l’estrazione di olio, mentre si portava a termine l'analisi tecnico-giuridica di ognuno dei casi presentati dal Movimento Unificato Contadino dell’Aguan. Questi accordi furono firmati dal presidente José Manuel Zelaya Rosales il 19 giugno del 2009 a Tocoa, Colon.
Gli accordi si stavano già effettivamente compiendo, dal momento che la commissione tecnico-giuridica arrivò in zona il 21 giugno per iniziare il lavoro. Il 23 giugno si stabilì una riunione tra i rappresentanti del MUCA, Fabio Ochoa ed il direttore dell'INA, nelle strutture della stessa a Sinaloa, Tocoa. In quel medesimo giorno, poche ore dopo questa riunione, il compagno Fabio Evelio Ochoa subiva un attentato criminale partito da un’auto privata.
Il 25 giugno si recò a Trujillo a sollecitare all'Istituto della Proprietà l'estratto di successione e di libertà dagli oneri delle 14 cooperative. Tuttavia, per gli eventi verificatisi col colpo di Stato dall'alba del 28 giugno 2009, il processo concordato si ruppe ed il MUCA si vide obbligato ad iniziare la lotta nelle strade per esigere il ritorno all'ordine costituzionale, ed all’occupazione delle terre come azione rivendicativa. Nel dicembre 2009 incominciarono le occupazioni, conformemente al punto 5 degli accordi firmati dal governo nel giugno dello stesso anno.
A causa dell'inadempienza, il 9 dicembre 2009 cominciò il recupero definitivo delle terre, ottenendo un primo blocco di 958 ettari appartenenti alla cooperativa La Confianza, 720 ettari della cooperativa La Aurora e 786 della cooperativa San Isidro, tutte nel municipio di Tocoa; e 665 ettari della cooperativa San Esteban nel Municipio di Trujillo
La documentazione legale in possesso del MUCA supporta e dimostra che i Sig.ri. Miguel Facuse, Reinaldo Canales e René Morales non sono padroni delle terre rubate a 29 cooperative contadine. Si condanna la posizione del pubblico ministero nel difendere gli interessi degli imprenditori, occultando gravi violazioni alle leggi del paese ed ai diritti di migliaia di contadini senza terra. Sono già vent’anni che il caso della compravendita di terre delle cooperative contadine non trova soluzione da parte dello Stato, aggravando con ciò la crisi tra contadini e proprietari terrieri.
Denunciamo la campagna di persecuzione, minacce di morte ed ordini di cattura nei confronti di oltre 16 compagni contadini da parte di impresari, militari e funzionari dello Stato. Riteniamo anche responsabili Miguel Facuse, René Morales e Reinaldo Canales di qualunque attentato o repressione che possiamo subire noi, dirigenti o membri del movimento contadino dell’Aguan.
Infine condanniamo la maniera assurda in cui si vuole macchiare l'immagine del movimento contadino, affibiandoci la colpa di azioni criminali in cui non abbiamo alcuna implicazione. Riaffermiamo che la nostra lotta è pacifica e pertanto respingiamo la presenza delle forze armate, che rispondono soltanto agli interessi dei proprietari terrieri ed impresari corrotti del paese.
Movimento Unificato Contadino dell’ Aguan (MUCA)
"Non siamo pesci per vivere dell'acqua, né uccelli per vivere dell'aria; siamo uomini e donne per vivere della terra"
www.movimientomuca.blogspot.com
Tradotto da Adelina Bottero
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18 gennaio, 2010
Aiutare Haitì, ecco come. Lista completa.
AIUTARE HAITI, ECCO COME:
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Bonifico bancario: causale “ Pro emergenza Haiti” IBAN IT66-C0100503 3820 0000 0218020
Programma alimentare mondiale Onu
Posta : c/c 61559688 intestato a: Comitato Italiano per il PAM
IBAN IT45TO76 0103 200 0000 6155 9688
Banca: c/c 6250156783/83 Banca Intesa ag. 4848
ABI 03069 CAB 05196
IBAN IT39 S030 6905 1966 2501 5678 383
Donazioni online: www.wfp.org/it
Caritas Italiana:
C/C POSTALE N. 347013 – Causale: “Emergenza terremoto Haiti”
Oppure tramite bonifico:
UniCredit Banca di Roma Spa, via Taranto 49, Roma – Iban: IT50 H030 0205 2060 0001 1063 119
Intesa Sanpaolo, via Aurelia 796, Roma – Iban: IT19 W030 6905 0921 0000 0000 012
Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma – Iban: IT29 U050 1803 2000 0000 0011 113
CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana tel. 06 66177001 (orario d’ufficio)
Donazioni online: Caritas international http://www.caritas.org/activities/emergencies/HaitiAppeal.html
Save the Children:
Donazioni online con carta di credito (nessuna commissione): http://www.savethechildren.it/2003/donazioni/donazioni.asp?ERH=y
Oppure: C/C POSTALE n.43019207
Medici senza Frontiere
Con carta di credito telefonando al numero verde 800.99.66.55 oppure allo 06.44.86.92.25
Con bonifico bancario IBAN IT58D0501803200000000115000
CC postale 87486007, intestato a Medici senza Frontiere inlus, causale: Terremoto Haiti
Online: http://www.medicisenzafrontiere.it/
Unicef
Donazioni online:
https://www.unicef.it/web/donazioni/index.php?c=OEHA&l=0001
Oppure: C/C postale 745.000 IBAN IT55 O050 1803 2000 0000 0505 010
...continua...
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16 gennaio, 2010
HAITI: Un Paese da sempre vittima del colonialismo e dell’imperialismo
Il 2010 si è aperto con le scene apocalittiche del terremoto di Haiti.
Spesso le catastrofi naturali, che naturali del tutto non sono quasi mai almeno per quel che riguarda gli effetti, riescono ad illuminare le ingiustizie del mondo meglio di accurate analisi scientifiche.
Questo è il caso di Haiti, un paese poverissimo da sempre vittima del colonialismo e dell’imperialismo.
La povertà di Haiti è racchiusa in pochi dati. In un territorio di 27.750 Kmq vivono più di 8 milioni di abitanti, con una densità di circa 300 abitanti a Kmq. Il Pil pro-capite era pari nel 2002 a 410 dollari annui ad abitante. L’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. L’1% dei mulatti possiede il 50% della ricchezza nazionale, il 90% (nero) non possiede niente. La mortalità infantile è addirittura del 74 per mille, la speranza di vita è di 50,5 anni per gli uomini e di 53 anni per le donne. Il 2% degli abitanti è sieropositivo all’AIDS. Il 50% della popolazione in età lavorativa non ha un lavoro fisso.
E’ chiaro che, in un simile contesto, un terremoto non è semplicemente un terremoto: è piuttosto un disastro che va ad aggravare terribilmente una situazione già disastrosa. Ma perché Haiti è venuta a trovarsi in queste condizioni?
L’isola di Hispaniola, di cui Haiti rappresenta la parte occidentale (ad oriente c’è la Repubblica Dominicana), fu raggiunta da Cristoforo Colombo nel 1492 e diventò subito dopo una colonia spagnola. Ecco come la descrisse Las Casas nel ‘500, citato da Noam Chomsky (vedi l'Archivio Web Noam Chomsky):
«Hispaniola era, scrisse Las Casas, "forse uno dei posti al mondo più densamente popolati", "un alveare di gente" che "in tutto l'infinito universo dell'umanità... è tra le più ingenue e meno malvagie e bugiarde". "Per conoscenza diretta, essendo stato testimone dei fatti", scrisse ancora Las Casas nel 1552, gli spagnoli, spinti da "avidità ed ambizione insaziabili", si avventarono sugli abitanti di Haiti "come bestie voraci... uccidendo, terrorizzando, umiliando, torturando, distruggendo i popoli indigeni" con "i più originali e svariati metodi di crudeltà, tanto che sopravvissero a malapena 200 persone. "Essere crudeli per gli spagnoli era la norma", continua Las Casas. "Più che crudeli, gli spagnoli si comportavano in modo così feroce perché, in seguito a quel trattamento duro ed umiliante, gli indiani non osassero più considerarsi esseri umani". Così "quando [gli abitanti di Hispaniola] videro ogni giorno i loro concittadini morire per il trattamento crudele ed inumano degli spagnoli, schiacciati dai cavalli, tagliati a pezzi con le spade, divorati e dilaniati dai cani, molti sepolti vivi, dopo aver sofferto ogni tipo di raffinate torture... decisero di abbandonarsi al loro infelice destino senza combattere, consegnandosi nelle mani dei loro carnefici così che facessero di loro quel che volevano"».
Ma il tentativo di schiavizzare la popolazione di Hispaniola fallì, gli abitanti dell’isola finirono per morire di stenti, quasi abbandonandosi ad una sorta di suicidio collettivo. Iniziò così – nei primi anni del Cinquecento – l’importazione degli schiavi dall’Africa, che venivano impiegati nelle piantagioni. Quando, nel 1697, la Francia conquistò alla Spagna il territorio che corrisponde all’attuale Haiti, gli indigeni erano stati completamente sterminati. Un genocidio totale di cui l’Europa preferisce non parlare.
Nel 1791, l’anno della rivolta degli schiavi di Haiti, la produzione totale dell’isola di Hispaniola era la più ricca di tutte le colonie europee nelle Americhe. Arrivano da qui i tre quarti della produzione mondiale di zucchero, e l’isola era al primo posto per la produzione del caffè, del cotone e del rhum.
In quell’anno gli abitanti di Haiti erano così suddivisi: 32mila bianchi europei, 28mila individui liberi di sangue misto (la gens de couleur) e ben 500mila schiavi neri, quasi tutti nati in Africa.
La rivolta degli schiavi, guidata da Touissant Louverture, scoppiò il 22 agosto 1791 e portò, dopo alterne vicende, all’abolizione della schiavitù e (nel 1804) all’indipendenza.
Haiti pose così fine, per la prima volta nel continente americano, all’istituto della schiavitù. Nacque in questo modo, dopo aver respinto i tentativi di riconquista di Napoleone, la prima repubblica nera del mondo, che dette rifugio anche a Simon Bolivar, appoggiando la sua causa indipendentista a condizione che egli sostenesse la liberazione di tutti gli schiavi dell’America Latina.
Ma Haiti fu anche il secondo paese del continente, dopo gli Stati Uniti, a conquistare l’indipendenza. Un’indipendenza però antischiavista, a differenza di quella statunitense, fondata invece proprio sullo schiavismo.
Per il «giacobino nero» Touissant Louverture che, catturato dai francesi durante i loro tentativi di riconquista, morirà di freddo e di stenti in prigione l’obiettivo era: «l’adozione assoluta del principio per cui nessun uomo, rosso, nero o bianco che sia, può essere proprietà del suo simile».
Per la nascente potenza nordamericana, allora ancora in fasce, tutto ciò risultava inaccettabile. Citiamo un brano assai significativo e documentato dal libro Controstoria del liberalismo di Domenico Losurdo:
«Indipendentemente dagli scambi commerciali – sottolineano autorevoli personalità politiche della repubblica nord-americana – già con il suo esempio l’isola rischia di mettere in discussione l’istituto della schiavitù ben al di là dei suoi confini: i suoi abitanti di fatto sono “vicini pericolosi per gli stati del sud e un asilo per i rinnegati di queste parti” (Langley). In conclusione: “La pace di undici stati non può consentire che in seno a loro siano esibiti i frutti di un’insurrezione nera vittoriosa” (idem). Si comprende allora l’appoggio di Jefferson al tentativo napoleonico di riconquista dell’isola e di reintroduzione della schiavitù. Al rappresentante della Francia il presidente statunitense assicura: “Niente sarà più facile che rifornire di ogni cosa il vostro esercito e la vostra flotta e ridurre Touissant alla morte per inedia”».
Siamo agli inizi dell’Ottocento ed il destino di Haiti sembra già segnato dalla vicinanza degli Stati Uniti. Negli anni che seguirono all’indipendenza l’ostracismo delle potenze schiaviste condannò Haiti al pagamento di ingentissimi danni alla Francia, che in questo modo riconquistò il controllo della finanza dell’ex colonia. Ma Haiti fu messa in un angolo perfino da Bolivar che, divenuto presidente della Grande Colombia, si rifiutò di riconoscere il paese caraibico perché «fomentava il conflitto razziale».
Con la guerra civile americana, Haiti diventò un luogo dove indirizzare i neri indotti a lasciare gli USA.
Se tra il 1849 ed il 1913 unità navali americane entrarono ben 24 volte nelle acque territoriali haitiane «per proteggere vite e proprietà americane» – giusto per far capire chi stesse prendendo il sopravvento nell’area caraibica – è nel 1915 che gli Stati Uniti occupano direttamente il paese. Un’occupazione che porterà alla violenta repressione delle rivolte, provocando la morte di migliaia di neri. Un’occupazione che troverà una forte resistenza nella guerriglia dei Cacos, nei confronti della quale gli americani reagiranno creando una Guardia Nazionale, che diventerà poi l’Armée d’Haiti, secondo un modello che viene ancora oggi applicato (basti pensare all’esercito di Karzai in Afghanistan). Per distruggere la guerriglia gli occupanti si servirono dell’aviazione, utilizzata per la prima volta in azioni coordinate con le truppe terrestri. Ma si servirono soprattutto delle stragi e delle esecuzioni sommarie.
Ma gli americani, dopo che i marines avevano sciolto l’assemblea Nazionale, vollero imporre anche una loro costituzione (come non ricordare le recenti vicende dell’Iraq!), che venne scritta nientemeno che dal futuro presidente Franklin Delano Roosevelt. Questa costituzione, redatta da un personaggio spesso evocato in positivo dalla cosiddetta “sinistra” italiana, reintrodusse il sistema feudale della corvée, applicandolo (ecco il progressismo roosveltiano!) a tutta la popolazione, non solo ai neri.
L’occupazione americana si appoggiò sulle minoranze collaborazioniste, rafforzando così le gerarchie razziali e di classe che affondavano le radici nel colonialismo francese.
Le truppe statunitensi se ne andarono nel 1934, ma solo dopo aver creato le premesse di un dominio totale sugli affari del paese. E’ in questo quadro di dipendenza assoluta che, nel 1956, arriva al potere “Papa Doc” Duvalier, le cui squadracce personali – i Tontons Macoutes, nome derivato dallo spauracchio di una fiaba locale – terrorizzeranno Haiti negli anni a venire.
Nel 1971, con la morte di Papa Doc, il potere dei Duvalier passa al figlio Jean-Claude, soprannominato Baby Doc, che resterà alla presidenza fino al 1986, quando una rivolta popolare costringerà il dittatore e la sua dannata famiglia a riparare verso l’esilio dorato in Costa Azzurra.
La dittatura dei Duvalier, oltre che per la sua spietatezza, è passata alla storia per la sua leggendaria corruzione. Ma dittatura, spietatezza e corruzione ebbero sempre la benedizione della Casa Bianca.
Nel 1986 Washington giunse invece alla convinzione di dover cambiare strada. Fu uno di quei cambiamenti, tipici del pragmatismo statunitense, che tanto piacciono ai creduloni di casa nostra che riescono sempre a vedervi il trasporto americano per la “democrazia”.
In realtà (riprendiamo dal già citato Archivio Chomsky) la verità veniva cosi spiattellata agli inizi del 1987 dal Wall Street Journal:
«Un funzionario dell'Amministrazione ha dichiarato che, alla fine dello scorso anno, la Casa Bianca era giunta alla conclusione, in seguito a manifestazioni di dimensioni mai viste prima di allora, che il regime stava andando in pezzi... Gli analisti Usa sapevano bene che gli stessi circoli dominanti ad Haiti avevano perso fiducia nel trentaquattrenne presidente a vita. E così i funzionari statunitensi, a partire dal segretario di Stato George Shultz, cominciarono a parlare apertamente di una 'democratizzazione' di Haiti».
Dopo vicende assai confuse, ma sempre pilotate da Washington, nel 1990 le elezioni presidenziali vennero invece vinte da Jean-Bertrand Aristide, un prete che faceva riferimento alla teologia della liberazione e che parlava di «potere ai poveri».
Fu un momento di vera speranza per gli haitiani. Una speranza che durò poco. Nel 1991 Aristide fu deposto da un golpe militare, e quando venne fatto rientrare nel 1994 si capì ben presto a quali condizioni Clinton aveva subordinato il suo rimpatrio.
Queste condizioni, dettate da un piano del Fondo monetario internazionale, prevedevano la svendita delle compagnie di Stato: la società telefonica, quella elettrica, il porto, tre banche e l’industria del cemento e della farina. I padroni nordamericani avevano così neutralizzato il «pericolo Aristide».
In questo modo Aristide poté tornare alla presidenza, alternandosi con René Preval (tuttora al potere), fino a quando nel 2004 l’«alternanza» prese di nuovo la forma di un golpe – questa volta mascherato da rivolta della «società civile». Nella notte fra il 28 ed il 29 febbraio 2004 militari statunitensi fanno salire Aristide – evidentemente tornato di nuovo «scomodo» ai padroni nord-americani – su un aereo che lo porta in esilio in Sudafrica. Contemporaneamente i marines, seguiti da unità dell’esercito francese, prendono il controllo di Haiti, fino a quando il 1° giugno arriva nel paese – anche qui seguendo uno schema ormai super-collaudato – la forza multinazionale dell’ONU guidata, giusto per dare un po’ meno nell’occhio, dal Brasile.
A questo colpo di Stato seguì la solita sanguinosa repressione. Solo nel primo anno dopo il golpe si parla dell’uccisione di circa tremila haitiani, di cui mille oppositori politici appartenenti per lo più al partito Fanmi Lavalas, il partito di Aristide.
Da notare che i membri del governo instaurato da Washington, seppure di origini haitiane, hanno quasi tutti vissuto e studiato negli Stati Uniti. Ma la cosiddetta «stabilizzazione» – anche nel 2008 vi fu una rivolta, repressa nel sangue, per l’aumento del prezzo del riso – fu possibile solo grazie all’azione del contingente ONU, di fatto una vera e propria forza di occupazione.
Oggi i geologi ci parlano giustamente delle placche che hanno generato il sisma del 12 gennaio, ma per capire il dramma del popolo di Haiti – anche quello immediato fatto di morte e distruzione, ma pure di fame, violenza e malattie – è bene soffermarsi a riflettere sulla storia di questo disgraziato paese. Disgraziato non per il «patto con il diavolo» evocato da un noto telepredicatore reazionario americano (il pastore evangelico Pat Robertson), ma per le concrete forze storiche che l’hanno oppresso per 500 anni.
Prima l’annientamento degli indigeni, poi lo schiavismo e lo sfruttamento coloniale, infine il dominio americano esercitato con tutti i mezzi possibili e immaginabili.
Ricordiamoci di tutto ciò di fronte alle scene di dolore diffuse dalla tv. Ricordiamoci che quel dolore non è solo conseguenza di un terribile terremoto. Un terremoto che, tra le altre conseguenze, ha avuto anche quella di riportare ad Haiti i marines...
Spesso le catastrofi naturali, che naturali del tutto non sono quasi mai almeno per quel che riguarda gli effetti, riescono ad illuminare le ingiustizie del mondo meglio di accurate analisi scientifiche.
Questo è il caso di Haiti, un paese poverissimo da sempre vittima del colonialismo e dell’imperialismo.
La povertà di Haiti è racchiusa in pochi dati. In un territorio di 27.750 Kmq vivono più di 8 milioni di abitanti, con una densità di circa 300 abitanti a Kmq. Il Pil pro-capite era pari nel 2002 a 410 dollari annui ad abitante. L’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. L’1% dei mulatti possiede il 50% della ricchezza nazionale, il 90% (nero) non possiede niente. La mortalità infantile è addirittura del 74 per mille, la speranza di vita è di 50,5 anni per gli uomini e di 53 anni per le donne. Il 2% degli abitanti è sieropositivo all’AIDS. Il 50% della popolazione in età lavorativa non ha un lavoro fisso.
E’ chiaro che, in un simile contesto, un terremoto non è semplicemente un terremoto: è piuttosto un disastro che va ad aggravare terribilmente una situazione già disastrosa. Ma perché Haiti è venuta a trovarsi in queste condizioni?
L’isola di Hispaniola, di cui Haiti rappresenta la parte occidentale (ad oriente c’è la Repubblica Dominicana), fu raggiunta da Cristoforo Colombo nel 1492 e diventò subito dopo una colonia spagnola. Ecco come la descrisse Las Casas nel ‘500, citato da Noam Chomsky (vedi l'Archivio Web Noam Chomsky):
«Hispaniola era, scrisse Las Casas, "forse uno dei posti al mondo più densamente popolati", "un alveare di gente" che "in tutto l'infinito universo dell'umanità... è tra le più ingenue e meno malvagie e bugiarde". "Per conoscenza diretta, essendo stato testimone dei fatti", scrisse ancora Las Casas nel 1552, gli spagnoli, spinti da "avidità ed ambizione insaziabili", si avventarono sugli abitanti di Haiti "come bestie voraci... uccidendo, terrorizzando, umiliando, torturando, distruggendo i popoli indigeni" con "i più originali e svariati metodi di crudeltà, tanto che sopravvissero a malapena 200 persone. "Essere crudeli per gli spagnoli era la norma", continua Las Casas. "Più che crudeli, gli spagnoli si comportavano in modo così feroce perché, in seguito a quel trattamento duro ed umiliante, gli indiani non osassero più considerarsi esseri umani". Così "quando [gli abitanti di Hispaniola] videro ogni giorno i loro concittadini morire per il trattamento crudele ed inumano degli spagnoli, schiacciati dai cavalli, tagliati a pezzi con le spade, divorati e dilaniati dai cani, molti sepolti vivi, dopo aver sofferto ogni tipo di raffinate torture... decisero di abbandonarsi al loro infelice destino senza combattere, consegnandosi nelle mani dei loro carnefici così che facessero di loro quel che volevano"».
Ma il tentativo di schiavizzare la popolazione di Hispaniola fallì, gli abitanti dell’isola finirono per morire di stenti, quasi abbandonandosi ad una sorta di suicidio collettivo. Iniziò così – nei primi anni del Cinquecento – l’importazione degli schiavi dall’Africa, che venivano impiegati nelle piantagioni. Quando, nel 1697, la Francia conquistò alla Spagna il territorio che corrisponde all’attuale Haiti, gli indigeni erano stati completamente sterminati. Un genocidio totale di cui l’Europa preferisce non parlare.
Nel 1791, l’anno della rivolta degli schiavi di Haiti, la produzione totale dell’isola di Hispaniola era la più ricca di tutte le colonie europee nelle Americhe. Arrivano da qui i tre quarti della produzione mondiale di zucchero, e l’isola era al primo posto per la produzione del caffè, del cotone e del rhum.
In quell’anno gli abitanti di Haiti erano così suddivisi: 32mila bianchi europei, 28mila individui liberi di sangue misto (la gens de couleur) e ben 500mila schiavi neri, quasi tutti nati in Africa.
La rivolta degli schiavi, guidata da Touissant Louverture, scoppiò il 22 agosto 1791 e portò, dopo alterne vicende, all’abolizione della schiavitù e (nel 1804) all’indipendenza.
Haiti pose così fine, per la prima volta nel continente americano, all’istituto della schiavitù. Nacque in questo modo, dopo aver respinto i tentativi di riconquista di Napoleone, la prima repubblica nera del mondo, che dette rifugio anche a Simon Bolivar, appoggiando la sua causa indipendentista a condizione che egli sostenesse la liberazione di tutti gli schiavi dell’America Latina.
Ma Haiti fu anche il secondo paese del continente, dopo gli Stati Uniti, a conquistare l’indipendenza. Un’indipendenza però antischiavista, a differenza di quella statunitense, fondata invece proprio sullo schiavismo.
Per il «giacobino nero» Touissant Louverture che, catturato dai francesi durante i loro tentativi di riconquista, morirà di freddo e di stenti in prigione l’obiettivo era: «l’adozione assoluta del principio per cui nessun uomo, rosso, nero o bianco che sia, può essere proprietà del suo simile».
Per la nascente potenza nordamericana, allora ancora in fasce, tutto ciò risultava inaccettabile. Citiamo un brano assai significativo e documentato dal libro Controstoria del liberalismo di Domenico Losurdo:
«Indipendentemente dagli scambi commerciali – sottolineano autorevoli personalità politiche della repubblica nord-americana – già con il suo esempio l’isola rischia di mettere in discussione l’istituto della schiavitù ben al di là dei suoi confini: i suoi abitanti di fatto sono “vicini pericolosi per gli stati del sud e un asilo per i rinnegati di queste parti” (Langley). In conclusione: “La pace di undici stati non può consentire che in seno a loro siano esibiti i frutti di un’insurrezione nera vittoriosa” (idem). Si comprende allora l’appoggio di Jefferson al tentativo napoleonico di riconquista dell’isola e di reintroduzione della schiavitù. Al rappresentante della Francia il presidente statunitense assicura: “Niente sarà più facile che rifornire di ogni cosa il vostro esercito e la vostra flotta e ridurre Touissant alla morte per inedia”».
Siamo agli inizi dell’Ottocento ed il destino di Haiti sembra già segnato dalla vicinanza degli Stati Uniti. Negli anni che seguirono all’indipendenza l’ostracismo delle potenze schiaviste condannò Haiti al pagamento di ingentissimi danni alla Francia, che in questo modo riconquistò il controllo della finanza dell’ex colonia. Ma Haiti fu messa in un angolo perfino da Bolivar che, divenuto presidente della Grande Colombia, si rifiutò di riconoscere il paese caraibico perché «fomentava il conflitto razziale».
Con la guerra civile americana, Haiti diventò un luogo dove indirizzare i neri indotti a lasciare gli USA.
Se tra il 1849 ed il 1913 unità navali americane entrarono ben 24 volte nelle acque territoriali haitiane «per proteggere vite e proprietà americane» – giusto per far capire chi stesse prendendo il sopravvento nell’area caraibica – è nel 1915 che gli Stati Uniti occupano direttamente il paese. Un’occupazione che porterà alla violenta repressione delle rivolte, provocando la morte di migliaia di neri. Un’occupazione che troverà una forte resistenza nella guerriglia dei Cacos, nei confronti della quale gli americani reagiranno creando una Guardia Nazionale, che diventerà poi l’Armée d’Haiti, secondo un modello che viene ancora oggi applicato (basti pensare all’esercito di Karzai in Afghanistan). Per distruggere la guerriglia gli occupanti si servirono dell’aviazione, utilizzata per la prima volta in azioni coordinate con le truppe terrestri. Ma si servirono soprattutto delle stragi e delle esecuzioni sommarie.
Ma gli americani, dopo che i marines avevano sciolto l’assemblea Nazionale, vollero imporre anche una loro costituzione (come non ricordare le recenti vicende dell’Iraq!), che venne scritta nientemeno che dal futuro presidente Franklin Delano Roosevelt. Questa costituzione, redatta da un personaggio spesso evocato in positivo dalla cosiddetta “sinistra” italiana, reintrodusse il sistema feudale della corvée, applicandolo (ecco il progressismo roosveltiano!) a tutta la popolazione, non solo ai neri.
L’occupazione americana si appoggiò sulle minoranze collaborazioniste, rafforzando così le gerarchie razziali e di classe che affondavano le radici nel colonialismo francese.
Le truppe statunitensi se ne andarono nel 1934, ma solo dopo aver creato le premesse di un dominio totale sugli affari del paese. E’ in questo quadro di dipendenza assoluta che, nel 1956, arriva al potere “Papa Doc” Duvalier, le cui squadracce personali – i Tontons Macoutes, nome derivato dallo spauracchio di una fiaba locale – terrorizzeranno Haiti negli anni a venire.
Nel 1971, con la morte di Papa Doc, il potere dei Duvalier passa al figlio Jean-Claude, soprannominato Baby Doc, che resterà alla presidenza fino al 1986, quando una rivolta popolare costringerà il dittatore e la sua dannata famiglia a riparare verso l’esilio dorato in Costa Azzurra.
La dittatura dei Duvalier, oltre che per la sua spietatezza, è passata alla storia per la sua leggendaria corruzione. Ma dittatura, spietatezza e corruzione ebbero sempre la benedizione della Casa Bianca.
Nel 1986 Washington giunse invece alla convinzione di dover cambiare strada. Fu uno di quei cambiamenti, tipici del pragmatismo statunitense, che tanto piacciono ai creduloni di casa nostra che riescono sempre a vedervi il trasporto americano per la “democrazia”.
In realtà (riprendiamo dal già citato Archivio Chomsky) la verità veniva cosi spiattellata agli inizi del 1987 dal Wall Street Journal:
«Un funzionario dell'Amministrazione ha dichiarato che, alla fine dello scorso anno, la Casa Bianca era giunta alla conclusione, in seguito a manifestazioni di dimensioni mai viste prima di allora, che il regime stava andando in pezzi... Gli analisti Usa sapevano bene che gli stessi circoli dominanti ad Haiti avevano perso fiducia nel trentaquattrenne presidente a vita. E così i funzionari statunitensi, a partire dal segretario di Stato George Shultz, cominciarono a parlare apertamente di una 'democratizzazione' di Haiti».
Dopo vicende assai confuse, ma sempre pilotate da Washington, nel 1990 le elezioni presidenziali vennero invece vinte da Jean-Bertrand Aristide, un prete che faceva riferimento alla teologia della liberazione e che parlava di «potere ai poveri».
Fu un momento di vera speranza per gli haitiani. Una speranza che durò poco. Nel 1991 Aristide fu deposto da un golpe militare, e quando venne fatto rientrare nel 1994 si capì ben presto a quali condizioni Clinton aveva subordinato il suo rimpatrio.
Queste condizioni, dettate da un piano del Fondo monetario internazionale, prevedevano la svendita delle compagnie di Stato: la società telefonica, quella elettrica, il porto, tre banche e l’industria del cemento e della farina. I padroni nordamericani avevano così neutralizzato il «pericolo Aristide».
In questo modo Aristide poté tornare alla presidenza, alternandosi con René Preval (tuttora al potere), fino a quando nel 2004 l’«alternanza» prese di nuovo la forma di un golpe – questa volta mascherato da rivolta della «società civile». Nella notte fra il 28 ed il 29 febbraio 2004 militari statunitensi fanno salire Aristide – evidentemente tornato di nuovo «scomodo» ai padroni nord-americani – su un aereo che lo porta in esilio in Sudafrica. Contemporaneamente i marines, seguiti da unità dell’esercito francese, prendono il controllo di Haiti, fino a quando il 1° giugno arriva nel paese – anche qui seguendo uno schema ormai super-collaudato – la forza multinazionale dell’ONU guidata, giusto per dare un po’ meno nell’occhio, dal Brasile.
A questo colpo di Stato seguì la solita sanguinosa repressione. Solo nel primo anno dopo il golpe si parla dell’uccisione di circa tremila haitiani, di cui mille oppositori politici appartenenti per lo più al partito Fanmi Lavalas, il partito di Aristide.
Da notare che i membri del governo instaurato da Washington, seppure di origini haitiane, hanno quasi tutti vissuto e studiato negli Stati Uniti. Ma la cosiddetta «stabilizzazione» – anche nel 2008 vi fu una rivolta, repressa nel sangue, per l’aumento del prezzo del riso – fu possibile solo grazie all’azione del contingente ONU, di fatto una vera e propria forza di occupazione.
Oggi i geologi ci parlano giustamente delle placche che hanno generato il sisma del 12 gennaio, ma per capire il dramma del popolo di Haiti – anche quello immediato fatto di morte e distruzione, ma pure di fame, violenza e malattie – è bene soffermarsi a riflettere sulla storia di questo disgraziato paese. Disgraziato non per il «patto con il diavolo» evocato da un noto telepredicatore reazionario americano (il pastore evangelico Pat Robertson), ma per le concrete forze storiche che l’hanno oppresso per 500 anni.
Prima l’annientamento degli indigeni, poi lo schiavismo e lo sfruttamento coloniale, infine il dominio americano esercitato con tutti i mezzi possibili e immaginabili.
Ricordiamoci di tutto ciò di fronte alle scene di dolore diffuse dalla tv. Ricordiamoci che quel dolore non è solo conseguenza di un terribile terremoto. Un terremoto che, tra le altre conseguenze, ha avuto anche quella di riportare ad Haiti i marines...
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Evo Morales: con Micheletti abbiamo un secondo Pinochet in America Latina
Il presidente della Bolivia, Evo Morales si è dispiaciuto della decisione recente del parlamento dell’Honduras di dichiarare “deputato vitalizio” l'attuale golpista del paese centroamericano, Roberto Micheletti, che ha considerato dello stesso tipo di dittatore che era lo scomparso Augusto Pinochet. “Solamente leggendo il titolare della notizia datata in Tegucigalpa ho detto abbiamo un secondo Pinochet in America Latina”, ha affermato in un discorso tenutosi durante la presentazione del libro “Evo nella mira, CIA e DEA in Bolivia”, della scrittrice argentina Stella Calloni.
Morales ha criticato il golpista Micheletti che ha deposto violentemente lo scorso 28 giugno 2009 il presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya, con la scusa che cercava di perpetuarsi nel potere.
Il tiranno Micheletti ha poi sommerso il paese in una crisi politica di proporzioni enormi, ed ha celebrato delle elezioni fasulle per cercare di legittimare il suo governo davanti alla comunità internazionale.
Per lo statista boliviano, “la storia si ripete ora in Honduras, ma presto o tardi saranno i popoli che giudicheranno i golpisti ed i traditori”, ha concluso.
Morales ha criticato il golpista Micheletti che ha deposto violentemente lo scorso 28 giugno 2009 il presidente legittimo dell’Honduras, Manuel Zelaya, con la scusa che cercava di perpetuarsi nel potere.
Il tiranno Micheletti ha poi sommerso il paese in una crisi politica di proporzioni enormi, ed ha celebrato delle elezioni fasulle per cercare di legittimare il suo governo davanti alla comunità internazionale.
Per lo statista boliviano, “la storia si ripete ora in Honduras, ma presto o tardi saranno i popoli che giudicheranno i golpisti ed i traditori”, ha concluso.
Etichette: America Latina
15 gennaio, 2010
USA-HONDURAS-AMERICA LATINA: lo scontro finale e il nostro silenzio
Pubblicato su Oltre Confine – La voce rossa
Abissale, stupefacente, suicida il silenzio, l’indifferenza, tranne poche eccezioni – PdCI e manifesto – con cui la sinistra, associazioni tematiche, giornali, radio "libere", addirittura l’informazione tutta, hanno occultato e dunque seppellito un avvenimento drammatico e foriero di incalcolabili conseguenze, come il colpo di Stato fascista in Honduras. Golpe allestito da Obama, l’uomo del “change”, dai militari gorilla e dall’oligarchia honduregni, poi presentato come evoluzione “democratica” dopo le elezioni-farsa tenute sotto le baionette degli quadroni della morte, con la minaccia di licenziamenti e persecuzioni, ma disertate da due terzi dei cittadini. Era successo la stessa cosa sotto Reagan in Cile. Ci ricordiamo degli scioperi della CGIL, del blocco delle navi cilene, del boicottaggio, dei cortei, presidi, picchetti, di “Armi al MIR”, quando Pinochet ammazzò Allende e il Cile? Meglio non specificare cosa ci sarebbe da dedurne. Un'altra caduta del nostro internazionalismo e antimperialismo. Ci occupiamo più di Myanmar che di un continente fratello a quattro secchi d’acqua e otto ore di volo da qui. Una terra che per molti è “il Continente della Speranza”. Forse ignorato perché implicita misura della nostra astenia.
Il golpe di Roberto Micheletti, presidente fellone del Congresso, istigato tra falsi arricciamenti di naso di Obama e poi confortato dal suo assenso, dopo finti negoziati di pace e di riconciliazione sceneggiati dalla Clinton e dall’Organizzazione degli Stati Americani (di netta obbedienza yankee), e stato poi sacralizzato con elezioni gestite dagli stessi militari che, usciti dalla base Usa di Palmerola, hanno compiuto il golpe sequestrato il legittimo presidente Manuel Zelaya, lo hanno deportato in Costarica e poi assediato nell’ambasciata brasiliana fino ad oggi. Da questo voto-truffa è uscito vincitore Porfirio – Pepe- Lobo, esponente dell’ultradestro Partito Nacional. Primo provvedimento: l’uscita dall’ALBA, l’Alternativa Bolivariana delle Americhe lanciata da Hugo Chavez con la partecipazione di nove paesi del Cono Sud e dei Caraibi. L’entrata nel concerto progressista e rivoluzionario dell’ALBA , insieme alla cancellazione di tutti i provvedimenti di emancipazione sociale, indipendenza nazionale, limitazioni alle multinazionali, è stato, alla fine di tre anni di mandato di Zelaya, il fattore scatenante, la classica goccia, per l’intervento pinochettista di Washington e delle famigerate “Dieci Famiglie” di feudatari e speculatori che controllano il paese di 7 milioni e mezzo di abitanti. Il più povero, perché il più depredato, delle Americhe, dopo Haiti.
Questa è la brutta notizia. Quella buona è enorme ed è rappresentata dalla straordinaria Resistenza che il popolo honduregno, pur decimato negli anni’70 e ’80 dai Contras che Reagan lanciò a sterminio dei sandinisti del Nicaragua e delle sinistre honduregne, ha saputo mettere in piedi e mantenere in piazza, in ogni parte del paese, durante tutti i mesi di dittatura e stato d’assedio fino ad oggi. L’ultima grande manifestazione di centinaia di migliaia a Tegucigalpa si è svolta, a dispetto degli assassini mirati, dei desaparecidos, dei sequestri di persona, delle torture, della soppressione dei diritti civili, il 7 gennaio scorso. Le decine di movimenti sociali e sindacali che hanno composto fin qui il Frente Nacional de la Resistenza al Golpe de Estato, con un inusitato ruolo di punta delle donne, si sono ora dati per programma una lotta di lunga durata che veda il consolidarsi di un soggetto politico democratico anticapitalista, antimperialista e anti-oligarchia, nella prospettiva di uno scontro decisivo in vista delle prossime elezioni presidenziali.
L’ignavia di tante forze che si proclamano antimperialiste è tanto più grave se si pensa che i fatti dell’Honduras rappresentano, nell’analisi di tutti i più qualificati commentatori, come anche apertamente nelle campagne propagandistiche degli Usa, il primo episodio di un ritorno all’Operazione Condor, la sanguinaria strategia kissingeriana per imporre in tutta l’America Latina, attraverso feroci dittature, un libero mercato controllato dalle proprie multinazionali, a rapina delle risorse continentali: petrolio, gas, agroindustria, minerali, legname, acqua, biodiversità, immigranti schiavi di stampo rosarniano. E a gestione monopolistica della droga. Sette basi in Colombia, con il corollario di forze speciali Usa, come al solito immuni da incriminazione per ogni genere di delitto, per la guerra elettronica e di bassa intensità (affidata a esperti israeliani), in ispecie contro il Venezuela; nuove basi militari nelle Antille olandesi, sempre ad accerchiamento del Venezuela, capofila con Cuba della spinta rigeneratrice latinoamericana; addestramento di paramilitari colombiani all’intervento di sostegno a destre fasciste (già impiegate in Honduras); attentati alla vita di presidenti progressisti come Evo Morales in Bolivia e Fernando Lugo in Paraguay; movimenti secessionisti e destabilizzanti allevati in Bolivia, Ecuador, Nicaragua; violazioni dello spazio aereo cubano da parte degli Usa e irruzione di paramilitari colombiani; riattivazione della IV Flotta Usa che con portaerei e cacciabombardieri scorrazza nelle acque latinoamericane. Il presidente venezuelano Chavez parla di “tamburi di guerra” e, se non ce la fanno con le solite rivoluzioni colorate, gli Stati Uniti ritroveranno gli strumenti dei colpi di Stato, dei regimi fascisti e della guerra. Lo sostengono senza pudicizie democratiche, i più qualificati rappresentanti repubblicani al Congresso e al Senato. E Obama non ha mai smentito nei fatti di essere arnese, volente o nolente, del Pentagono.
La gran parte degli Stati latinoamericani, fatta eccezione per Colombia, Perù e Cile, ha disconosciuto le elezioni in Honduras e non riconoscono il nuovo regime. Il presidente brasiliano Lula si è erto a difensore di Manuel Zelaya e delle rivendicazioni delle masse honduregne. Il fronte del Sud è vasto, forte e determinato. Gli Stati Uniti sono impegnati in cinque guerre antislamiche: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, e, a ulteriore espansione dell’intervento, si inventano Al Qa’ida nel Maghreb, nel Sahara, nella Penisola Araba e in Somalia, dappertutto. La partita è aperta. Purchè ci stiamo anche noi.
Il golpe e la Resistenza in Honduras, i riflessi su tutta l’America Latina nel nuovo docufilm di Fulvio Grimaldi “IL RITORNO DEL CONDOR”, che dal 16 gennaio al 7 febbraio verrà presentato in tutta Italia con la partecipazione dell’autore e di Esly Banegas Avila, dirigente del Fronte della Resistenza al Colpo di Stato in Honduras e presidente del Sindacato dei contadini nel Nordovest dell’Honduras (visionando@virgilio.it)
Abissale, stupefacente, suicida il silenzio, l’indifferenza, tranne poche eccezioni – PdCI e manifesto – con cui la sinistra, associazioni tematiche, giornali, radio "libere", addirittura l’informazione tutta, hanno occultato e dunque seppellito un avvenimento drammatico e foriero di incalcolabili conseguenze, come il colpo di Stato fascista in Honduras. Golpe allestito da Obama, l’uomo del “change”, dai militari gorilla e dall’oligarchia honduregni, poi presentato come evoluzione “democratica” dopo le elezioni-farsa tenute sotto le baionette degli quadroni della morte, con la minaccia di licenziamenti e persecuzioni, ma disertate da due terzi dei cittadini. Era successo la stessa cosa sotto Reagan in Cile. Ci ricordiamo degli scioperi della CGIL, del blocco delle navi cilene, del boicottaggio, dei cortei, presidi, picchetti, di “Armi al MIR”, quando Pinochet ammazzò Allende e il Cile? Meglio non specificare cosa ci sarebbe da dedurne. Un'altra caduta del nostro internazionalismo e antimperialismo. Ci occupiamo più di Myanmar che di un continente fratello a quattro secchi d’acqua e otto ore di volo da qui. Una terra che per molti è “il Continente della Speranza”. Forse ignorato perché implicita misura della nostra astenia.
Il golpe di Roberto Micheletti, presidente fellone del Congresso, istigato tra falsi arricciamenti di naso di Obama e poi confortato dal suo assenso, dopo finti negoziati di pace e di riconciliazione sceneggiati dalla Clinton e dall’Organizzazione degli Stati Americani (di netta obbedienza yankee), e stato poi sacralizzato con elezioni gestite dagli stessi militari che, usciti dalla base Usa di Palmerola, hanno compiuto il golpe sequestrato il legittimo presidente Manuel Zelaya, lo hanno deportato in Costarica e poi assediato nell’ambasciata brasiliana fino ad oggi. Da questo voto-truffa è uscito vincitore Porfirio – Pepe- Lobo, esponente dell’ultradestro Partito Nacional. Primo provvedimento: l’uscita dall’ALBA, l’Alternativa Bolivariana delle Americhe lanciata da Hugo Chavez con la partecipazione di nove paesi del Cono Sud e dei Caraibi. L’entrata nel concerto progressista e rivoluzionario dell’ALBA , insieme alla cancellazione di tutti i provvedimenti di emancipazione sociale, indipendenza nazionale, limitazioni alle multinazionali, è stato, alla fine di tre anni di mandato di Zelaya, il fattore scatenante, la classica goccia, per l’intervento pinochettista di Washington e delle famigerate “Dieci Famiglie” di feudatari e speculatori che controllano il paese di 7 milioni e mezzo di abitanti. Il più povero, perché il più depredato, delle Americhe, dopo Haiti.
Questa è la brutta notizia. Quella buona è enorme ed è rappresentata dalla straordinaria Resistenza che il popolo honduregno, pur decimato negli anni’70 e ’80 dai Contras che Reagan lanciò a sterminio dei sandinisti del Nicaragua e delle sinistre honduregne, ha saputo mettere in piedi e mantenere in piazza, in ogni parte del paese, durante tutti i mesi di dittatura e stato d’assedio fino ad oggi. L’ultima grande manifestazione di centinaia di migliaia a Tegucigalpa si è svolta, a dispetto degli assassini mirati, dei desaparecidos, dei sequestri di persona, delle torture, della soppressione dei diritti civili, il 7 gennaio scorso. Le decine di movimenti sociali e sindacali che hanno composto fin qui il Frente Nacional de la Resistenza al Golpe de Estato, con un inusitato ruolo di punta delle donne, si sono ora dati per programma una lotta di lunga durata che veda il consolidarsi di un soggetto politico democratico anticapitalista, antimperialista e anti-oligarchia, nella prospettiva di uno scontro decisivo in vista delle prossime elezioni presidenziali.
L’ignavia di tante forze che si proclamano antimperialiste è tanto più grave se si pensa che i fatti dell’Honduras rappresentano, nell’analisi di tutti i più qualificati commentatori, come anche apertamente nelle campagne propagandistiche degli Usa, il primo episodio di un ritorno all’Operazione Condor, la sanguinaria strategia kissingeriana per imporre in tutta l’America Latina, attraverso feroci dittature, un libero mercato controllato dalle proprie multinazionali, a rapina delle risorse continentali: petrolio, gas, agroindustria, minerali, legname, acqua, biodiversità, immigranti schiavi di stampo rosarniano. E a gestione monopolistica della droga. Sette basi in Colombia, con il corollario di forze speciali Usa, come al solito immuni da incriminazione per ogni genere di delitto, per la guerra elettronica e di bassa intensità (affidata a esperti israeliani), in ispecie contro il Venezuela; nuove basi militari nelle Antille olandesi, sempre ad accerchiamento del Venezuela, capofila con Cuba della spinta rigeneratrice latinoamericana; addestramento di paramilitari colombiani all’intervento di sostegno a destre fasciste (già impiegate in Honduras); attentati alla vita di presidenti progressisti come Evo Morales in Bolivia e Fernando Lugo in Paraguay; movimenti secessionisti e destabilizzanti allevati in Bolivia, Ecuador, Nicaragua; violazioni dello spazio aereo cubano da parte degli Usa e irruzione di paramilitari colombiani; riattivazione della IV Flotta Usa che con portaerei e cacciabombardieri scorrazza nelle acque latinoamericane. Il presidente venezuelano Chavez parla di “tamburi di guerra” e, se non ce la fanno con le solite rivoluzioni colorate, gli Stati Uniti ritroveranno gli strumenti dei colpi di Stato, dei regimi fascisti e della guerra. Lo sostengono senza pudicizie democratiche, i più qualificati rappresentanti repubblicani al Congresso e al Senato. E Obama non ha mai smentito nei fatti di essere arnese, volente o nolente, del Pentagono.
La gran parte degli Stati latinoamericani, fatta eccezione per Colombia, Perù e Cile, ha disconosciuto le elezioni in Honduras e non riconoscono il nuovo regime. Il presidente brasiliano Lula si è erto a difensore di Manuel Zelaya e delle rivendicazioni delle masse honduregne. Il fronte del Sud è vasto, forte e determinato. Gli Stati Uniti sono impegnati in cinque guerre antislamiche: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, e, a ulteriore espansione dell’intervento, si inventano Al Qa’ida nel Maghreb, nel Sahara, nella Penisola Araba e in Somalia, dappertutto. La partita è aperta. Purchè ci stiamo anche noi.
Il golpe e la Resistenza in Honduras, i riflessi su tutta l’America Latina nel nuovo docufilm di Fulvio Grimaldi “IL RITORNO DEL CONDOR”, che dal 16 gennaio al 7 febbraio verrà presentato in tutta Italia con la partecipazione dell’autore e di Esly Banegas Avila, dirigente del Fronte della Resistenza al Colpo di Stato in Honduras e presidente del Sindacato dei contadini nel Nordovest dell’Honduras (visionando@virgilio.it)
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Honduras Parla il giornalista sequestrato e torturato
"Vogliono zittire la stampa indipendente e popolare"
Da un punto non precisato della regione centroamericana parla il giornalista che è stato sequestrato e torturato
Lo scorso 29 dicembre, César Silva, comunicatore sociale impegnato a raccontare la lotta del popolo honduregno contro il colpo di Stato, è stato sequestrato e selvaggiamente percosso e torturato da sconosciuti, che Silva assicura essere membri dell'esercito o della polizia. Secondo le varie organizzazioni dei diritti umani dell'Honduras, quanto accaduto a Silva fa parte di una strategia repressiva promossa dal governo di fatto usando il braccio armato delle forze militari del paese, per seminare il terrore tra la popolazione ed i mezzi di comunicazione che non si sono piegati alle forze golpiste.
César Silva, insieme a Edwin Renán Fajardo, il ragazzo di 22 anni assassinato lo scorso 22 dicembre, sono autori di un'infinità di audiovisivi che sono stati materiale imprescindibile per raccontare al mondo la tragedia del popolo honduregno dopo il 28 giugno e per organizzare attività formative e di coscientizzazione della Resistenza in numerosi quartieri e colonie della capitale e nel resto del paese.
Durante il suo sequestro è stato incappucciato e portato nella zona periferica di Tegucigalpa, dove è stato interrogato per tutto il giorno e la notte affinché desse informazioni su presunti depositi di armi della Resistenza nel paese. È stato selvaggiamente percosso e torturato, denudato e quasi soffocato e alla fine è stato liberato, quasi come è accaduto a Walter Tróchez, il difensore di diritti umani della comunità LGBT assassinato pochi giorni dopo il suo sequestro.
Sirel e la Lista Informativa "Nicaragua y más" si sono mobilitate verso un luogo imprecisato della regione centroamericana per riunirsi con César Silva, il quale, immediatamente dopo il suo sequestro e liberazione, ha deciso di ascoltare i consigli di amici ed amiche ed ha abbandonato il paese con la sua famiglia.
- Come è avvenuto il sequestro?
- Venivo dal sud del paese dove era andato per distribuire del materiale audiovisivo ad organizzazioni contadine e arrivando alla capitale sono sceso dall'autobus ed ho preso un taxi per andare a casa. Non potevo certo immaginare che avevano intercettato il mio cellulare e che stavano ascoltando le mie chiamate dove segnalavo i miei spostamenti.
Quando sono arrivato nella zona dell'anello periferico, una macchina si è accostata al taxi e le persone che stavano dentro hanno estratto la pistola, intimando al taxista di fermarsi.
Pensando ad una rapina ho detto loro di prendere pure la telecamera e il computer, ma la loro risposta è stata molto chiara: "Non è questa m... che c'interessa, siamo venuti a prendere te, figlio di p...".
Mi hanno fatto salire sull'auto, hanno minacciato il tassista affinché si dimenticasse di quanto accaduto e sono partiti. Prima mi hanno obbligato a chinare la testa e metterla tra le mie gambe e quando non ce la facevo più, mi hanno colpito violentemente sul viso e mi hanno incappucciato. Dopo circa un'ora siamo arrivati in un casolare, credo in campagna, e mi hanno rinchiuso in una stanza completamente buia. Dopo circa due ore è iniziato l'interrogatorio.
- Che cosa è successo dopo?
- L'aggressività di chi m'interrogava cresceva con il passare dei minuti, benché ci fosse sempre uno dei sequestratori che fingeva di essere il buono della situazione. Mi domandavano dove fossero le armi, chi le faceva entrare nel paese, quante cellule armate comandavo e quali erano i miei contatti internazionali.
Io non capivo che cosa volessero da me e ripetevo loro che ero un giornalista e che non sapevo nulla delle armi. Hanno iniziato ad innervosirsi e a colpirmi sulla faccia, nello stomaco, sulla schiena e nei testicoli. Mi hanno spogliato e bagnato con acqua, poi mi hanno buttato per terra e mi hanno messo acqua delle narici. Infine mi hanno messo una sedia sulla trachea e ci si sono seduti. Stavo asfissiando.
Dai loro commenti era chiaro che sapevano perfettamente chi fossi ed hanno anche parlato del materiale audiovisivo e di Renán Fajardo.
Verso le tre del mattino hanno cercato di spaventarmi ancora di più ed a voce alta hanno iniziato a pianificare il mio omicidio. Alla fine hanno però detto che mi avrebbero liberato e che avevo un angelo custode che per il momento mi aveva protetto.
Mi hanno fatto salire sulla macchina, sempre incappucciato e dopo circa un'ora si sono fermati. Hanno aperto la porta e la persona che stava al mio fianco mi ha dato un calcio e mi ha buttato fuori dalla macchina. Poi sono ripartiti.
Mi sono alzato a fatica e sono corso al Cofadeh per denunciare l'accaduto.
- Ti sei chiesto il perché del tuo sequestro?
- Quando la repressione già non avviene durante le manifestazioni, iniziano le catture selettive. Nel mio caso, credo che il lavoro fatto con Renán durante la chiusura di Radio Globo e Cholusat Sud-Canale 36 abbia fatto piuttosto male ai golpisti, perché il nostro materiale arrivava in tutti gli angoli del paese e in un certo modo aiutava a rompere l'isolamento e la disinformazione che erano gli obiettivi del governo di fatto.
Producevamo materiale audiovisivo in cui facevamo vedere ciò che stava accadendo nel paese e che, ovviamente, nessun telegiornale o radio riportava. Raccontavamo la repressione, gli omicidi, la violenza e lo distribuivamo affinché la Resistenza l'usasse per informare la gente che non poteva ascoltare o vedere i mezzi di comunicazione che erano stati chiusi dai golpisti.
Alla fine abbiamo deciso di sospendere le proiezioni perché sono iniziate le perquisizioni nei quartieri e nelle colonie dove svolgevamo le attività. Molti leader della Resistenza che promuovevano queste attività sono stati assassinati.
- Perché credi che abbiano deciso di non ucciderti?
- Credo che non avessero ricevuto l'ordine di farlo, altrimenti non ci avrebbero pensato due volte. Ma soprattutto sono convinto che l'obiettivo fosse quello di usare il mio caso per seminare terrore tra i colleghi honduregni, che portano avanti un lavoro che arreca danni e dà fastidio ai golpisti. Il messaggio è per gli altri: se hanno potuto fare questo a me, lo possono fare in qualunque momento con qualsiasi altro giornalista. Ciò che vogliono è zittirci.
Quello che comunque mi preoccupa di più è che esiste una gran quantità di colleghi che si sono venduti per alcune monete ai poteri golpisti. Hanno venduto il sangue della gente per un lavoro.
- Perché hai deciso di abbandonare il paese?
- Dopo il mio sequestro sapevo che in qualunque momento potevano arrivare a casa mia ed assassinarmi.Gli organismi dei diritti umani e vari amici mi hanno inoltre detto che non volevano vedere sui giornali altre foto di vittime della dittatura e mi hanno consigliato di uscire dal paese per un po' di tempo. Spero sia solo per un periodo, perché voglio tornare e continuare il mio lavoro.
Non ho paura, anche se devo essere più cauto per non rendere le cose troppo facili a questi assassini. Se mi vogliono ammazzare, che almeno facciano un po' di fatica.
© (Testo Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua - www.itanica.org )
Da un punto non precisato della regione centroamericana parla il giornalista che è stato sequestrato e torturato
Lo scorso 29 dicembre, César Silva, comunicatore sociale impegnato a raccontare la lotta del popolo honduregno contro il colpo di Stato, è stato sequestrato e selvaggiamente percosso e torturato da sconosciuti, che Silva assicura essere membri dell'esercito o della polizia. Secondo le varie organizzazioni dei diritti umani dell'Honduras, quanto accaduto a Silva fa parte di una strategia repressiva promossa dal governo di fatto usando il braccio armato delle forze militari del paese, per seminare il terrore tra la popolazione ed i mezzi di comunicazione che non si sono piegati alle forze golpiste.
César Silva, insieme a Edwin Renán Fajardo, il ragazzo di 22 anni assassinato lo scorso 22 dicembre, sono autori di un'infinità di audiovisivi che sono stati materiale imprescindibile per raccontare al mondo la tragedia del popolo honduregno dopo il 28 giugno e per organizzare attività formative e di coscientizzazione della Resistenza in numerosi quartieri e colonie della capitale e nel resto del paese.
Durante il suo sequestro è stato incappucciato e portato nella zona periferica di Tegucigalpa, dove è stato interrogato per tutto il giorno e la notte affinché desse informazioni su presunti depositi di armi della Resistenza nel paese. È stato selvaggiamente percosso e torturato, denudato e quasi soffocato e alla fine è stato liberato, quasi come è accaduto a Walter Tróchez, il difensore di diritti umani della comunità LGBT assassinato pochi giorni dopo il suo sequestro.
Sirel e la Lista Informativa "Nicaragua y más" si sono mobilitate verso un luogo imprecisato della regione centroamericana per riunirsi con César Silva, il quale, immediatamente dopo il suo sequestro e liberazione, ha deciso di ascoltare i consigli di amici ed amiche ed ha abbandonato il paese con la sua famiglia.
- Come è avvenuto il sequestro?
- Venivo dal sud del paese dove era andato per distribuire del materiale audiovisivo ad organizzazioni contadine e arrivando alla capitale sono sceso dall'autobus ed ho preso un taxi per andare a casa. Non potevo certo immaginare che avevano intercettato il mio cellulare e che stavano ascoltando le mie chiamate dove segnalavo i miei spostamenti.
Quando sono arrivato nella zona dell'anello periferico, una macchina si è accostata al taxi e le persone che stavano dentro hanno estratto la pistola, intimando al taxista di fermarsi.
Pensando ad una rapina ho detto loro di prendere pure la telecamera e il computer, ma la loro risposta è stata molto chiara: "Non è questa m... che c'interessa, siamo venuti a prendere te, figlio di p...".
Mi hanno fatto salire sull'auto, hanno minacciato il tassista affinché si dimenticasse di quanto accaduto e sono partiti. Prima mi hanno obbligato a chinare la testa e metterla tra le mie gambe e quando non ce la facevo più, mi hanno colpito violentemente sul viso e mi hanno incappucciato. Dopo circa un'ora siamo arrivati in un casolare, credo in campagna, e mi hanno rinchiuso in una stanza completamente buia. Dopo circa due ore è iniziato l'interrogatorio.
- Che cosa è successo dopo?
- L'aggressività di chi m'interrogava cresceva con il passare dei minuti, benché ci fosse sempre uno dei sequestratori che fingeva di essere il buono della situazione. Mi domandavano dove fossero le armi, chi le faceva entrare nel paese, quante cellule armate comandavo e quali erano i miei contatti internazionali.
Io non capivo che cosa volessero da me e ripetevo loro che ero un giornalista e che non sapevo nulla delle armi. Hanno iniziato ad innervosirsi e a colpirmi sulla faccia, nello stomaco, sulla schiena e nei testicoli. Mi hanno spogliato e bagnato con acqua, poi mi hanno buttato per terra e mi hanno messo acqua delle narici. Infine mi hanno messo una sedia sulla trachea e ci si sono seduti. Stavo asfissiando.
Dai loro commenti era chiaro che sapevano perfettamente chi fossi ed hanno anche parlato del materiale audiovisivo e di Renán Fajardo.
Verso le tre del mattino hanno cercato di spaventarmi ancora di più ed a voce alta hanno iniziato a pianificare il mio omicidio. Alla fine hanno però detto che mi avrebbero liberato e che avevo un angelo custode che per il momento mi aveva protetto.
Mi hanno fatto salire sulla macchina, sempre incappucciato e dopo circa un'ora si sono fermati. Hanno aperto la porta e la persona che stava al mio fianco mi ha dato un calcio e mi ha buttato fuori dalla macchina. Poi sono ripartiti.
Mi sono alzato a fatica e sono corso al Cofadeh per denunciare l'accaduto.
- Ti sei chiesto il perché del tuo sequestro?
- Quando la repressione già non avviene durante le manifestazioni, iniziano le catture selettive. Nel mio caso, credo che il lavoro fatto con Renán durante la chiusura di Radio Globo e Cholusat Sud-Canale 36 abbia fatto piuttosto male ai golpisti, perché il nostro materiale arrivava in tutti gli angoli del paese e in un certo modo aiutava a rompere l'isolamento e la disinformazione che erano gli obiettivi del governo di fatto.
Producevamo materiale audiovisivo in cui facevamo vedere ciò che stava accadendo nel paese e che, ovviamente, nessun telegiornale o radio riportava. Raccontavamo la repressione, gli omicidi, la violenza e lo distribuivamo affinché la Resistenza l'usasse per informare la gente che non poteva ascoltare o vedere i mezzi di comunicazione che erano stati chiusi dai golpisti.
Alla fine abbiamo deciso di sospendere le proiezioni perché sono iniziate le perquisizioni nei quartieri e nelle colonie dove svolgevamo le attività. Molti leader della Resistenza che promuovevano queste attività sono stati assassinati.
- Perché credi che abbiano deciso di non ucciderti?
- Credo che non avessero ricevuto l'ordine di farlo, altrimenti non ci avrebbero pensato due volte. Ma soprattutto sono convinto che l'obiettivo fosse quello di usare il mio caso per seminare terrore tra i colleghi honduregni, che portano avanti un lavoro che arreca danni e dà fastidio ai golpisti. Il messaggio è per gli altri: se hanno potuto fare questo a me, lo possono fare in qualunque momento con qualsiasi altro giornalista. Ciò che vogliono è zittirci.
Quello che comunque mi preoccupa di più è che esiste una gran quantità di colleghi che si sono venduti per alcune monete ai poteri golpisti. Hanno venduto il sangue della gente per un lavoro.
- Perché hai deciso di abbandonare il paese?
- Dopo il mio sequestro sapevo che in qualunque momento potevano arrivare a casa mia ed assassinarmi.Gli organismi dei diritti umani e vari amici mi hanno inoltre detto che non volevano vedere sui giornali altre foto di vittime della dittatura e mi hanno consigliato di uscire dal paese per un po' di tempo. Spero sia solo per un periodo, perché voglio tornare e continuare il mio lavoro.
Non ho paura, anche se devo essere più cauto per non rendere le cose troppo facili a questi assassini. Se mi vogliono ammazzare, che almeno facciano un po' di fatica.
© (Testo Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua - www.itanica.org )
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14 gennaio, 2010
IL RITORNO DEL CONDOR
estratti dal nuovo docufilm di Fulvio Grimaldi sul golpe militare in Honduras
http://www.youtube.com/watch?v=KPQ1v1HhanQ&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=UWEGDeBkpWU&NR=1
http://www.youtube.com/watch?v=yAwnTsFkmIQ&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=KPQ1v1HhanQ&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=UWEGDeBkpWU&NR=1
http://www.youtube.com/watch?v=yAwnTsFkmIQ&feature=related
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PERCHÉ BRUCIANO LE RADIO COMUNITARIE GARÍFUNA?
Mercoledì 6 gennaio scorso, all'alba, la radio comunitaria garífuna Faluma Bimeti di Triunfo de la Cruz, è stata incendiata da sconosciuti, che ne hanno saccheggiato le attrezzature. Non è la prima volta che la radio è oggetto del furto del suo impianto di trasmissione.
Nel 2002 degli sconosciuti rubarono il trasmettitore ed altre dotazioni chiave della radio. Il popolo garífuna si è visto esposto ad un lento processo d’assimilazione alla cultura dominante, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, monopoli che si trovano nelle mani di figure alquanto conosciute nel paese come manipolatrici dell'informazione.
La carenza di mezzi d’informazione propri del popolo garífuna ci ha condotti ad un'accelerata perdita culturale, ogni giorno più dolorosa. La maggior parte delle comunità in cui v'è accesso alla televisione affronta una permanente alienazione (consumismo, calcio, mode, telenovelas, cartoni animati e violenza), acculturazione e terrorismo mediatico, parimenti ad un declino nell’uso del nostro idioma, che sfortunatamente è diventato una secondo lingua.
Dall'anno 1997 la radio Faluma Bimeti ha cominciato a trasmettere, promossa dal Comitato di Difesa della Terra di Triunfo de la Cruz (CODETT), col proposito di appoggiare la cultura garífuna e difendere il territorio ancestrale della comunità.
Triunfo de la Cruz, come le altre comunità garífuna della Baia di Tela, sono diventate zone di conflitto a causa dell'intervento d’impresari, politici ed investitori stranieri che pretendono d’impadronirsi delle terre comunitarie per la realizzazione di progetti turistici.
Le usurpazioni sistematiche per mano straniera che ha patito la collettività, hanno condotto il CODETT ed il Patronato della comunità a presentare una petizione alla Commissione Interamericana dei Diritti umani (CIDH), organismo che ha accolto il caso il 14 marzo 2006, registrandolo col n° 125-48. Per l'elite al potere in Honduras, la posizione assunta dalla comunità di Triunfo in quanto a difesa acerrima del territorio ancestrale, è una sfida ai suoi interessi economici.
L’Honduras è conosciuto per l’alto livello di povertà della maggioranza dei suoi abitanti, indotto da una minoranza che mantiene il paese sotto un regime feudale. L’utilizzo dei mezzi d’informazione di massa da parte dei signori feudali locali, è stato un mezzo efficace di controllo e manipolazione.
Come nel resto dell’America Latina, i monopoli della comunicazione sono serviti a reiterare la distorsione dell'informazione e di conseguenza perpetuare la dominazione. Le radio comunitarie garífuna si sono consolidate durante la decade scorsa, fissando un precedente nel nostro popolo, poiché l’obiettivo originario è la protezione della nostra cultura, intimamente legata alla madre terra.
Attualmente sono installate quattro radio comunitarie e, in un futuro non molto lontano, sognamo di estendere la rete attraverso tutta la nazione garífuna. Scopo principale: sostenere ed arricchire la nostra cultura, difenderne il territorio ancestrale e, allo stesso tempo, porre le basi per un sistema d’allarme preventivo relazionato al cambiamento climatico, ai terremoti e alle malattie.
L'attentato contro la radio Faluma Bimeti si spiega così: all’oligarchia non va giù che noi garífuna ci troviamo in un processo di resistenza culturale che dura da 212 anni, e che rompiamo catene, avendo preso parte attiva contro la distruzione della democrazia, tradimento perpetrato l'anno scorso dall'oligarchia locale con l'appoggio della destra troglodita degli Stati Uniti.
Di fronte a questi fatti l'OFRANEH (ndt: Organización Fraternal Negra Hondureña), esige il rispetto del diritto all'informazione, come stabilito dall’articolo 13 (Libertà di Pensiero e di Espressione) della Convenzione Interamericana dei Diritti Umani. Allo stesso tempo richiediamo un'investigazione esauriente su quest’atto compiuto contro la radio comunitaria garífuna e ai danni del nostro popolo in generale.
La Ceiba, 8 gennaio 2010
Miriam Miranda
Coordinatrice Generale
http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3524:ipor-que-arden-las-radios-comunitarias-garifunas&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
Nel 2002 degli sconosciuti rubarono il trasmettitore ed altre dotazioni chiave della radio. Il popolo garífuna si è visto esposto ad un lento processo d’assimilazione alla cultura dominante, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, monopoli che si trovano nelle mani di figure alquanto conosciute nel paese come manipolatrici dell'informazione.
La carenza di mezzi d’informazione propri del popolo garífuna ci ha condotti ad un'accelerata perdita culturale, ogni giorno più dolorosa. La maggior parte delle comunità in cui v'è accesso alla televisione affronta una permanente alienazione (consumismo, calcio, mode, telenovelas, cartoni animati e violenza), acculturazione e terrorismo mediatico, parimenti ad un declino nell’uso del nostro idioma, che sfortunatamente è diventato una secondo lingua.
Dall'anno 1997 la radio Faluma Bimeti ha cominciato a trasmettere, promossa dal Comitato di Difesa della Terra di Triunfo de la Cruz (CODETT), col proposito di appoggiare la cultura garífuna e difendere il territorio ancestrale della comunità.
Triunfo de la Cruz, come le altre comunità garífuna della Baia di Tela, sono diventate zone di conflitto a causa dell'intervento d’impresari, politici ed investitori stranieri che pretendono d’impadronirsi delle terre comunitarie per la realizzazione di progetti turistici.
Le usurpazioni sistematiche per mano straniera che ha patito la collettività, hanno condotto il CODETT ed il Patronato della comunità a presentare una petizione alla Commissione Interamericana dei Diritti umani (CIDH), organismo che ha accolto il caso il 14 marzo 2006, registrandolo col n° 125-48. Per l'elite al potere in Honduras, la posizione assunta dalla comunità di Triunfo in quanto a difesa acerrima del territorio ancestrale, è una sfida ai suoi interessi economici.
L’Honduras è conosciuto per l’alto livello di povertà della maggioranza dei suoi abitanti, indotto da una minoranza che mantiene il paese sotto un regime feudale. L’utilizzo dei mezzi d’informazione di massa da parte dei signori feudali locali, è stato un mezzo efficace di controllo e manipolazione.
Come nel resto dell’America Latina, i monopoli della comunicazione sono serviti a reiterare la distorsione dell'informazione e di conseguenza perpetuare la dominazione. Le radio comunitarie garífuna si sono consolidate durante la decade scorsa, fissando un precedente nel nostro popolo, poiché l’obiettivo originario è la protezione della nostra cultura, intimamente legata alla madre terra.
Attualmente sono installate quattro radio comunitarie e, in un futuro non molto lontano, sognamo di estendere la rete attraverso tutta la nazione garífuna. Scopo principale: sostenere ed arricchire la nostra cultura, difenderne il territorio ancestrale e, allo stesso tempo, porre le basi per un sistema d’allarme preventivo relazionato al cambiamento climatico, ai terremoti e alle malattie.
L'attentato contro la radio Faluma Bimeti si spiega così: all’oligarchia non va giù che noi garífuna ci troviamo in un processo di resistenza culturale che dura da 212 anni, e che rompiamo catene, avendo preso parte attiva contro la distruzione della democrazia, tradimento perpetrato l'anno scorso dall'oligarchia locale con l'appoggio della destra troglodita degli Stati Uniti.
Di fronte a questi fatti l'OFRANEH (ndt: Organización Fraternal Negra Hondureña), esige il rispetto del diritto all'informazione, come stabilito dall’articolo 13 (Libertà di Pensiero e di Espressione) della Convenzione Interamericana dei Diritti Umani. Allo stesso tempo richiediamo un'investigazione esauriente su quest’atto compiuto contro la radio comunitaria garífuna e ai danni del nostro popolo in generale.
La Ceiba, 8 gennaio 2010
Miriam Miranda
Coordinatrice Generale
http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3524:ipor-que-arden-las-radios-comunitarias-garifunas&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
Etichette: Honduras
VIOLENTO SGOMBERO DI CONTADINI DA PARTE DELL'ESERCITO
Sulla riva sinistra del fiume Aguán
www.voselsoberano.com - 9 gennaio 2010
Un operativo composto da 300 membri dell'esercito e della polizia ha iniziato, alle 6:30 di questo venerdì mattina, lo sgombero con la forza dei contadini dalla sponda sinistra del fiume Aguán. Le forze di sicurezza sono entrate nella zona di El Despertar, Suyapa e Guanchías “bruciando e distruggendo tutto al loro passaggio”, ha dichiarato a Radio Progreso Wilfredo Paz Zúñiga, del Fronte di Resistenza della zona di Tocoa, che ha definito l'operazione “un'autentica battuta di caccia all’uomo”.
“Stanno inseguendo i contadini attraverso i palmeti della zona, sono disseminati in un'area di 40 o 50 chilometri” ha continuato Wilfredo Paz “ci hanno attanagliati, hanno fatto fuori tutto quello che i contadini avevano. L'esercito sta setacciando e serrando la gente verso una zona da cui potrà uscire solo se in grado di nuotare”... E ha spiegato come un gruppo di circa 25 donne siano state incalzate da membri dell'esercito che utilizzavano bombe lacrimogene per sfinirle e farle prigioniere.
“Le comunità decisero da ieri pomeriggio di allontanare i bambini e portarli in un posto sicuro, ma le donne e gli anziani si trovavano nella zona quando polizia ed esercito hanno fatto irruzione violentemente a far sfollare” ha spiegato Paz Zúñiga.
Almeno 20 persone sono state ferite ed altre 17 portate al 15° Battaglione di Fanteria di Rio Claro... Si riporta il decesso di tre contadini senza che, alla chiusura di questo giornale, se ne sia potuta confermare l'identità.
Da parte sua, il portavoce del 15° Battaglione di Fanteria, il sottocommissario Sauceda, ha garantito che lo sgombero si è “svolto in modo pacifico”adempiendo ad un'ordinanza giudiziaria emessa dal tribunale di Trujillo. “Sono stati sgomberati tre ettari di terreno e non si è verificato alcuno scontro coi contadini, perché tutto è avvenuto attraverso il dialogo”, ha assicurato il sottocommissario, pur ammettendo che “nelle vicinanze dei palmeti si è udito qualche sparo ed abbiamo un membro dell'esercito con una ferita al volto”.
Per Sauceda non esistono arrestati “è solo stato trasferito un gruppo di persone per motivi di sicurezza e per evitare uno scontro con la polizia” e ha precisato che sono stati requisiti un revolver calibro 38 e numerosi machetes.
La situazione nella zona dove si sono svolti i violenti operativi militari e polizieschi appare tuttavia diversa; un contadino lanciava un appello al dialogo ed alla pace attraverso i microfoni di Radio Progreso: “Fermate la persecuzione” chiedeva, “abbiamo bisogno della terra, ce la stanno togliendo, che ci restituiscano ciò che è nostro, perché come honduregni ci appartiene”.
Le terre sgomberate sono di proprietà di Miguel Facussé, René Morales e Reynaldo Canales. I contadini lottano per una terra che per il momento è accaparrata da questi proprietari terrieri. Il 16 dicembre scorso due dirigenti contadini del Movimento Unificato di Aguán furono abbordati da un’auto senza targa e portati alla stazione di polizia.
La repressione contro i leader va dai procedimenti giudiziari per occupazione illecita di terre fino ad azioni che attentano alla loro integrità fisica, nei dintorni della zona dove sono ubicati, uomini in abiti civili scattano loro fotografie, con l'intenzione di delinearne un profilo che potrebbe essere finalizzato alla loro eliminazione.
Giovedì prossimo continuerà lo sgombero sulla sponda destra del fiume Aguán.
Comunicazioni - Radio Progresso - ERIC-SJ
Da: http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3536:violento-desalojo-de-campesinos-por-parte-del-ejercito&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
www.voselsoberano.com - 9 gennaio 2010
Un operativo composto da 300 membri dell'esercito e della polizia ha iniziato, alle 6:30 di questo venerdì mattina, lo sgombero con la forza dei contadini dalla sponda sinistra del fiume Aguán. Le forze di sicurezza sono entrate nella zona di El Despertar, Suyapa e Guanchías “bruciando e distruggendo tutto al loro passaggio”, ha dichiarato a Radio Progreso Wilfredo Paz Zúñiga, del Fronte di Resistenza della zona di Tocoa, che ha definito l'operazione “un'autentica battuta di caccia all’uomo”.
“Stanno inseguendo i contadini attraverso i palmeti della zona, sono disseminati in un'area di 40 o 50 chilometri” ha continuato Wilfredo Paz “ci hanno attanagliati, hanno fatto fuori tutto quello che i contadini avevano. L'esercito sta setacciando e serrando la gente verso una zona da cui potrà uscire solo se in grado di nuotare”... E ha spiegato come un gruppo di circa 25 donne siano state incalzate da membri dell'esercito che utilizzavano bombe lacrimogene per sfinirle e farle prigioniere.
“Le comunità decisero da ieri pomeriggio di allontanare i bambini e portarli in un posto sicuro, ma le donne e gli anziani si trovavano nella zona quando polizia ed esercito hanno fatto irruzione violentemente a far sfollare” ha spiegato Paz Zúñiga.
Almeno 20 persone sono state ferite ed altre 17 portate al 15° Battaglione di Fanteria di Rio Claro... Si riporta il decesso di tre contadini senza che, alla chiusura di questo giornale, se ne sia potuta confermare l'identità.
Da parte sua, il portavoce del 15° Battaglione di Fanteria, il sottocommissario Sauceda, ha garantito che lo sgombero si è “svolto in modo pacifico”adempiendo ad un'ordinanza giudiziaria emessa dal tribunale di Trujillo. “Sono stati sgomberati tre ettari di terreno e non si è verificato alcuno scontro coi contadini, perché tutto è avvenuto attraverso il dialogo”, ha assicurato il sottocommissario, pur ammettendo che “nelle vicinanze dei palmeti si è udito qualche sparo ed abbiamo un membro dell'esercito con una ferita al volto”.
Per Sauceda non esistono arrestati “è solo stato trasferito un gruppo di persone per motivi di sicurezza e per evitare uno scontro con la polizia” e ha precisato che sono stati requisiti un revolver calibro 38 e numerosi machetes.
La situazione nella zona dove si sono svolti i violenti operativi militari e polizieschi appare tuttavia diversa; un contadino lanciava un appello al dialogo ed alla pace attraverso i microfoni di Radio Progreso: “Fermate la persecuzione” chiedeva, “abbiamo bisogno della terra, ce la stanno togliendo, che ci restituiscano ciò che è nostro, perché come honduregni ci appartiene”.
Le terre sgomberate sono di proprietà di Miguel Facussé, René Morales e Reynaldo Canales. I contadini lottano per una terra che per il momento è accaparrata da questi proprietari terrieri. Il 16 dicembre scorso due dirigenti contadini del Movimento Unificato di Aguán furono abbordati da un’auto senza targa e portati alla stazione di polizia.
La repressione contro i leader va dai procedimenti giudiziari per occupazione illecita di terre fino ad azioni che attentano alla loro integrità fisica, nei dintorni della zona dove sono ubicati, uomini in abiti civili scattano loro fotografie, con l'intenzione di delinearne un profilo che potrebbe essere finalizzato alla loro eliminazione.
Giovedì prossimo continuerà lo sgombero sulla sponda destra del fiume Aguán.
Comunicazioni - Radio Progresso - ERIC-SJ
Da: http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3536:violento-desalojo-de-campesinos-por-parte-del-ejercito&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
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Oltre 250 guardie di Sicurezza Privata nell'operazione di sgombero ed assassinio dei contadini
www.voselsoberano.com - 9 gennaio 2010
Oltre 250 guardie di sicurezza privata parteciparono all'operazione di sgombero ed assassinio dei contadini, in cruenta violazione della legge, che non autorizza dette attribuzioni alle imprese di sicurezza privata. L'uso di tale esercito di guardie private costituisce un crimine di alto tradimento contro la patria, perché questi mercenari compongono una guerriglia privata al servizio dell'oligarchia, alla pari delle “Autodifese Unite” della Colombia.
Coloro che entrarono nei confini interni per assassinare i contadini, sotto la protezione della falsa operazione di sgombero pacifico, sono i mercenari colombiani dei quali si è tanto parlato negli ultimi mesi. Essi sono al servizio dell'usurpatore colombiano René Morales, come anche dell'usurpatore arabo Miguel Facussé Barjum.
iquibalamchan
Da: http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3529:mas-de-250-guardias-de-seguridad-privada-participaron-en-la-operacion-de-desalojo-y-asesinato-de&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
Oltre 250 guardie di sicurezza privata parteciparono all'operazione di sgombero ed assassinio dei contadini, in cruenta violazione della legge, che non autorizza dette attribuzioni alle imprese di sicurezza privata. L'uso di tale esercito di guardie private costituisce un crimine di alto tradimento contro la patria, perché questi mercenari compongono una guerriglia privata al servizio dell'oligarchia, alla pari delle “Autodifese Unite” della Colombia.
Coloro che entrarono nei confini interni per assassinare i contadini, sotto la protezione della falsa operazione di sgombero pacifico, sono i mercenari colombiani dei quali si è tanto parlato negli ultimi mesi. Essi sono al servizio dell'usurpatore colombiano René Morales, come anche dell'usurpatore arabo Miguel Facussé Barjum.
iquibalamchan
Da: http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3529:mas-de-250-guardias-de-seguridad-privada-participaron-en-la-operacion-de-desalojo-y-asesinato-de&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
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RESISTENCIA Organo di divulgazione del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare
Dal: Bollettino speciale del 7 gennaio 2010, Tegucigalpa, Honduras
Per sconfiggere la dittatura: Organizziamoci!
Il popolo honduregno è pronto ad assumersi questa nuova tappa della lotta; si mantiene coeso ed aumenta il suo livello di coscienza, analizza quali saranno i nuovi metodi per affrontare la dittatura, si stringe intorno al Fronte Nazionale di Resistenza Popolare, accetta le sfide della lotta non violenta e si unisce agli altri popoli dell’America Latina.
Questo sarà un anno molto importante per il destino del nostro paese; di fronte al cambio di facciata della dittatura il 27 gennaio, la Resistenza si consolida come l’opzione politica del popolo, come rappresentante unica e legittima delle aspirazioni di trasformazione sociale. L’Assemblea Nazionale Costituente continua ad essere la bandiera principale che unisce la grande quantità di settori che fronteggiano l’oligarchia.
Alla grave crisi politica derivata dal colpo di stato si sommerà l’acutizzazione della crisi economica, in conseguenza dell’immenso furto delle risorse dello Stato, dell’applicazione del modello neoliberista e della furiosa battaglia, che si scatenerà tra i gruppi imprenditoriali partecipanti al golpe, e che adesso stanno esigendo la loro “fetta di torta”.
La minoranza che ha usurpato il potere e che ha cercato invano di convalidarlo con delle elezioni illegali ed illegittime, disconosciute dal popolo, ricorrerà alla repressione ed alla menzogna, tenterà d’imbrogliare la popolazione con l’uso dei mezzi d’informazione, cercherà di comprare volontà, scommetterà sulla sconfitta delle organizzazioni popolari e presupporrà l’appoggio internazionale, che riceverà dai governi di destra.
Di fronte a tali realtà il popolo non s’intimorisce, al contrario, si appropria ogni volta di più del suo ruolo di costruttore della storia. Adesso il compito più importante è elevare i livelli di coscienza ed organizzare un nucleo di Resistenza in ogni quartiere, sobborgo, comunità rurale e centro di lavoro.
Per l’esempio dei compagni e compagne martiri, per il futuro della nostra patria, per la rifondazione dello Stato: Siamo impegnati a vincere!
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Avanziamo!
Formazione politica in ogni nucleo della Resistenza
Tutti i sabati dalle ore 17 alle 19
Sintonizzatevi su Radio Gualcho - 1510 AM
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Informazione alternativa in Internet
www.voselsoberano.com
www.honduraslaboral.org
www.contraelgolpedeestadohn.blogspot.com
www.defensoresenlinea.org
www.hablahonduras.com
FRONTE NAZIONALE DI RESISTENZA POPOLARE
Comunicato n° 44
Il Fronte Nazionale di Resistenza Popolare comunica:
1) La Resistenza honduregna inizia l'anno 2010 in lotta contro la dittatura, respingendo le manovre che l'oligarchia mette in atto per lavarsi la faccia attraverso un falso processo di transizione di potere da Micheletti a Lobo, che lascerà intatto il sistema di dominio dello Stato da parte di una minoranza privilegiata di grandi impresari corrotti, imprese multinazionali, militari e poliziotti repressori.
2) Evidenziamo che la dittatura si appresta al ritiro dello Stato dell’Honduras dall'Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America - Trattato Commerciale dei Popoli (ALBA-TCP), che dalla sua firma, il 9 ottobre 2008, ha apportato benefici ai settori popolari del nostro paese ed ha dimostrato che è possibile un nuovo tipo di relazioni solidali tra popoli e governi, per sostenere i poveri e propiziare la vera integrazione della grande patria latinoamericana.
L'imminente ritiro dall'ALBA-TCP evidenza che il colpo di stato è stato realizzato per bloccare le urgenti trasformazioni strutturali della società e mandare un messaggio agli altri popoli latinoamericani, che stanno portando avanti progetti di nazione alternativi e progressisti.
3) Ripudiamo le misure economiche antipopolari promosse dall'oligarchia e denunciamo la sua sfacciata intenzione di distruggere le conquiste sociali che tanto sono costate ai settori popolari organizzati. Sono state aumentate le tariffe dell'acqua, i prezzi del paniere di base, svuotate le riserve internazionali ed i risparmi d’imprese statali come l'ENEE o Hondutel, modificata la formula per calcolare il prezzo dei combustibili, a vantaggio delle grandi compagnie multinazionali, e costantemente vengono sanciti contratti per favorire gli impresari implicati nel colpo di stato. Allo stesso modo, sono in programma altre misure come la riduzione reale del salario minimo, la riforma dello statuto degli insegnanti, la cancellazione dell’iscrizione scolastica gratuita, la svalutazione della lempira, la privatizzazione delle imprese nazionali e dei fondi pensione degli impiegati pubblici, tra gli altri.
4) Denunciamo alla comunità internazionale lo stato repressivo nel quale vive la società honduregna, acutizzatosi dalla fine dell'anno scorso con l'aumento di omicidi, persecuzioni ed esilio di compagni e compagne. Facciamo un appello agli organismi internazionali dei diritti umani, affinché aumentino la pressione sul regime di fatto.
5) Respingiamo i piani della dittatura d’approvare un'amnistia, con cui condonerebbero a se stessi i crimini di lesa umanità commessi dall'esecuzione del colpo di stato. Ricordiamo che tali crimini non cadono in prescrizione e che i responsabili, prima o poi, dovranno pagare davanti alla giustizia.
6) Manteniamo ferma la nostra esigenza di ritornare all'ordine istituzionale e d’installare l'Assemblea Nazionale Costituente democratica e popolare, in accordo al diritto sovrano del popolo di definire la società in cui vivere.
Resistiamo e Vinceremo!
Tegucigalpa, 7 gennaio 2010
Traduzione a cura di Adelina Bottero
Per sconfiggere la dittatura: Organizziamoci!
Il popolo honduregno è pronto ad assumersi questa nuova tappa della lotta; si mantiene coeso ed aumenta il suo livello di coscienza, analizza quali saranno i nuovi metodi per affrontare la dittatura, si stringe intorno al Fronte Nazionale di Resistenza Popolare, accetta le sfide della lotta non violenta e si unisce agli altri popoli dell’America Latina.
Questo sarà un anno molto importante per il destino del nostro paese; di fronte al cambio di facciata della dittatura il 27 gennaio, la Resistenza si consolida come l’opzione politica del popolo, come rappresentante unica e legittima delle aspirazioni di trasformazione sociale. L’Assemblea Nazionale Costituente continua ad essere la bandiera principale che unisce la grande quantità di settori che fronteggiano l’oligarchia.
Alla grave crisi politica derivata dal colpo di stato si sommerà l’acutizzazione della crisi economica, in conseguenza dell’immenso furto delle risorse dello Stato, dell’applicazione del modello neoliberista e della furiosa battaglia, che si scatenerà tra i gruppi imprenditoriali partecipanti al golpe, e che adesso stanno esigendo la loro “fetta di torta”.
La minoranza che ha usurpato il potere e che ha cercato invano di convalidarlo con delle elezioni illegali ed illegittime, disconosciute dal popolo, ricorrerà alla repressione ed alla menzogna, tenterà d’imbrogliare la popolazione con l’uso dei mezzi d’informazione, cercherà di comprare volontà, scommetterà sulla sconfitta delle organizzazioni popolari e presupporrà l’appoggio internazionale, che riceverà dai governi di destra.
Di fronte a tali realtà il popolo non s’intimorisce, al contrario, si appropria ogni volta di più del suo ruolo di costruttore della storia. Adesso il compito più importante è elevare i livelli di coscienza ed organizzare un nucleo di Resistenza in ogni quartiere, sobborgo, comunità rurale e centro di lavoro.
Per l’esempio dei compagni e compagne martiri, per il futuro della nostra patria, per la rifondazione dello Stato: Siamo impegnati a vincere!
-------------------------------------------------------------------------------------
Avanziamo!
Formazione politica in ogni nucleo della Resistenza
Tutti i sabati dalle ore 17 alle 19
Sintonizzatevi su Radio Gualcho - 1510 AM
-------------------------------------------------------------------------------------
Informazione alternativa in Internet
www.voselsoberano.com
www.honduraslaboral.org
www.contraelgolpedeestadohn.blogspot.com
www.defensoresenlinea.org
www.hablahonduras.com
FRONTE NAZIONALE DI RESISTENZA POPOLARE
Comunicato n° 44
Il Fronte Nazionale di Resistenza Popolare comunica:
1) La Resistenza honduregna inizia l'anno 2010 in lotta contro la dittatura, respingendo le manovre che l'oligarchia mette in atto per lavarsi la faccia attraverso un falso processo di transizione di potere da Micheletti a Lobo, che lascerà intatto il sistema di dominio dello Stato da parte di una minoranza privilegiata di grandi impresari corrotti, imprese multinazionali, militari e poliziotti repressori.
2) Evidenziamo che la dittatura si appresta al ritiro dello Stato dell’Honduras dall'Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America - Trattato Commerciale dei Popoli (ALBA-TCP), che dalla sua firma, il 9 ottobre 2008, ha apportato benefici ai settori popolari del nostro paese ed ha dimostrato che è possibile un nuovo tipo di relazioni solidali tra popoli e governi, per sostenere i poveri e propiziare la vera integrazione della grande patria latinoamericana.
L'imminente ritiro dall'ALBA-TCP evidenza che il colpo di stato è stato realizzato per bloccare le urgenti trasformazioni strutturali della società e mandare un messaggio agli altri popoli latinoamericani, che stanno portando avanti progetti di nazione alternativi e progressisti.
3) Ripudiamo le misure economiche antipopolari promosse dall'oligarchia e denunciamo la sua sfacciata intenzione di distruggere le conquiste sociali che tanto sono costate ai settori popolari organizzati. Sono state aumentate le tariffe dell'acqua, i prezzi del paniere di base, svuotate le riserve internazionali ed i risparmi d’imprese statali come l'ENEE o Hondutel, modificata la formula per calcolare il prezzo dei combustibili, a vantaggio delle grandi compagnie multinazionali, e costantemente vengono sanciti contratti per favorire gli impresari implicati nel colpo di stato. Allo stesso modo, sono in programma altre misure come la riduzione reale del salario minimo, la riforma dello statuto degli insegnanti, la cancellazione dell’iscrizione scolastica gratuita, la svalutazione della lempira, la privatizzazione delle imprese nazionali e dei fondi pensione degli impiegati pubblici, tra gli altri.
4) Denunciamo alla comunità internazionale lo stato repressivo nel quale vive la società honduregna, acutizzatosi dalla fine dell'anno scorso con l'aumento di omicidi, persecuzioni ed esilio di compagni e compagne. Facciamo un appello agli organismi internazionali dei diritti umani, affinché aumentino la pressione sul regime di fatto.
5) Respingiamo i piani della dittatura d’approvare un'amnistia, con cui condonerebbero a se stessi i crimini di lesa umanità commessi dall'esecuzione del colpo di stato. Ricordiamo che tali crimini non cadono in prescrizione e che i responsabili, prima o poi, dovranno pagare davanti alla giustizia.
6) Manteniamo ferma la nostra esigenza di ritornare all'ordine istituzionale e d’installare l'Assemblea Nazionale Costituente democratica e popolare, in accordo al diritto sovrano del popolo di definire la società in cui vivere.
Resistiamo e Vinceremo!
Tegucigalpa, 7 gennaio 2010
Traduzione a cura di Adelina Bottero
Etichette: Honduras
06 gennaio, 2010
"IL RITORNO DEL CONDOR"
Con il colpo di Stato e la dittatura in Honduras, gli Usa hanno lanciato la loro controffensiva contro i movimenti e governi di emancipazione e liberazione in America Latina, ma hanno subito incontrato una stupefacente resistenza di popolo con, nel caso dell'Honduras, un ruolo di guida delle donne. Con le sette basi militari e la totale colonizzazione della Colombia, la riattivazione della IV Flotta di guerra, l'accerchiamento del Venezuela bolivariano anche dal lato delle Antille Olandesi, le nuove basi in Panama e Paraguay, le cospirazioni secessioniste in Bolivia, Ecuador e Venezuela, i tentativi di colpi di stato anche in Paraguay e Bolivia, le forze speciali israeliane e statunitensi imperversanti nel continente, è iniziata la battaglia finale per il recupero del "cortile di casa" (petrolio, risorse minerarie, legno, pascoli, manodopera a basso costo, biodiversità, acqua), che per il mondo è il "Continente della speranza". Lo scontro è tra socialismo del XXI secolo e assassini del pianeta.
Dal 16 gennaio al 7 febbraio Il Circolo di Italia-Cuba della Tuscia organizza, insieme ad altri circoli e strutture, un tour italiano di una dirigente del Fronte Nazionale della Resistenza al Colpto di Stato in Honduras, nel corso del quale verrà presentato anche il nuovo documentario "Il ritorno del Condor".
Etichette: Honduras
Trenta morti affossano la libertà di stampa latinoamericana
di Stella Spinelli
L'America latina conta trenta giornalisti uccisi nel solo 2009
Trenta. L'America Latina, il continente riemerso dall'oblio forzato in cui dittature e oppressione l'avevano forzatamente rilegato, sta finalmente tornando alla vita grazie a una maggioranza di governi progressisti che soffiano sulla polvere di un passato di morte e miseria, ma ancora c'è molta strada da fare. Quello che era il vecchio cortile dello Zio Sam, ha sì nuova vita e nuove speranze, ma le libertà finora conquistate devono ancora fare i conti con corruzione e violenze incancrenite. Un dato, fra gli altri, fotografa quanta strada c'è ancora da percorrere sulla via per la piena libertà: il 2009 ha visto trenta giornalisti morti ammazzati per aver osservato, raccontato, diffuso in nome del diritto di ogni cittadino a essere informato. Di questi, tredici sono stati uccisi nel solo Messico, che si converte nel paese latinoamericano più rischioso per i giornalisti che perseguono la verità. Subito a ruota si piazza la Colombia, con sei morti, quindi il Guatemala con quattro, l'Honduras e il Brasile con due e infine il Salvador, il Venezuela e il Paraguay con uno. Il continente latinoamericano, dunque, in un contesto di crisi economica globale, negli ultimi dodici mesi ha segnato il passo in materia di libertà di stampa e dei diritti dei lavoratori dei mezzi d'informazione, colpiti da licenziamenti e cassa integrazione. A denunciarlo è la Federazione dei giornalisti dell'America latina e del Caraibi.
Gli omicidi, le aggressioni, sono stati nella maggioranza dei casi legati a casi di corruzione. Le vittime solitamente non sono però direttori o giornalisti di grandi media. Salvo casi eccezionali, vengono uccisi comunicatori di mezzi di informazione locali o comunitari oppure corrispondenti di grandi testate ma inviati in piccole località. L'intento, nel 2009, è stato comunque quello di eliminare la notizia. Per questo, in Messico, Colombia, Guatemala, Honduras, Brasile, Paraguay e Venezuela è stato deciso di "uccidere il messaggero".
Il Messico è in piena crisi umanitaria. I tredici giornalisti assassinati ne sono l'esempio lampante. Dietro c'è un grave connubio tra narcotrafficanti e governo, dato che l'impunità regna incontrastata. Aggressioni, intimidazioni, minacce sono la norma per tutti quei professionisti dell'informazione che si pongono con spirito critico e indipendente. Il risultato è o l'autocensura o la morte. Medesima situazione in Colombia, un paese piegato da una guerra interna cinquantennale, dove sguazzano incontrastati narcotraffico e corruzione. Specialmente nelle file governative. E infatti "è il medesimo governo a minimizzare i crimini contro i giornalisti, l'aumento esponenziale degli attacchi violenti contro i comunicatori sociali e la persecuzione verso giudici e magistrati, di cui è il principale artefice, ma che grazie a una suggestiva campagna internazionale riesce a mascherare e negare", spiegano dalla Federazione. Esemplare del clima che si respira in Colombia è la fine che ha fatto il progetto di legge per depenalizzare il reato di ingiuria e calunnia, che adesso irretisce pesantemente la libertà di stampa: eclissato dai dibattiti sulla seconda rielezione dell'onnipresente Alvaro Uribe.
"In Venezuela, invece, le aggressioni avvengono principalmente dallo Stato - denuncia la Federazione - attraverso attacchi di simpatizzanti del governo ai giornalisti e mediante i mancati rinnovi delle licenze ai mezzi di informazione dell'opposizione o semplicemente critici verso le politiche ufficiali". Questa la posizione della Federacion de periodistas, ma sul Venezuela va precisato che, secondo i dati dell'Osservatorio Internazionale sui Media, la gran parte dell'informazione è privata e apertamente schierata con l'opposizione. Tre quarti dei media non fanno che attaccare il governo di Hugo Chavez, dimenticando di perseguire la verità mantenendo una posizione super partes. Certo il ricorso alla violenza non è mai giustificato, nemmeno nel Venezuela bolivariano, dove si conta un giornalista assassinato negli ultimi dodici mesi.
Sono un centinaio, invece, quelli aggrediti nella Repubblica Dominicana, mentre in Honduras la situazione della libertà di stampa è ormai gravissima. Dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009, la repressione contro i media che si sono mostrati critici contro i golpisti è stata sistematica. Perseguitati anche i giornalisti internazionali accorsi nel paese. Due quelli uccisi.
Un peggioramento si è registrato anche nel democratico Brasile, l'unico paese che contemplava giuridicamente l'esigenza di un titolo professionale per esercitare il giornalismo, sbarramento che avrebbe dovuto garantire una certa qualità all'informazione. Avrebbe, dato che il Tribunale supremo, a cui erano ricorsi le lobby dell'editoria, ha appena tolto il paletto aprendo la strada a chicchessia.
Non va meglio in Perú dove, nonostante non sia siano registrati morti ammazzati tra i giornalisti, le aggressioni superano quelle di qualsiasi paese della regione: 180 casi. Il più emblematico, la chiusura forzata di Radio La Voz di Bagua, emittente indipendente castigata per motivi politici solo per aver reso pubblica la verità su quanto accaduto durante la mattanza per mano della polizia contro gli indigeni amazzonici del 5 giugno scorso.
Ottimi passi avanti invece in Argentina, dove è stata approvata la Legge dei Media, che combatte i monopoli dei mezzi d'informazione. Essendo stata redatta da sindacati, Ong e organizzazioni sociali e coordinata dalla Federazione argentina dei lavoratori della stampa è una legge esemplare per molte realtà.
Qualche gradino è stato salito anche dall'Uruguay, che è riuscito a ottenere la depenalizzazione dei reati a mezzo stampa.
http://it.peacereporter.net/articolo/19623/Trenta+morti+affossano+la+libert%26agrave%3B+di+stampa+latinoamericana
L'America latina conta trenta giornalisti uccisi nel solo 2009
Trenta. L'America Latina, il continente riemerso dall'oblio forzato in cui dittature e oppressione l'avevano forzatamente rilegato, sta finalmente tornando alla vita grazie a una maggioranza di governi progressisti che soffiano sulla polvere di un passato di morte e miseria, ma ancora c'è molta strada da fare. Quello che era il vecchio cortile dello Zio Sam, ha sì nuova vita e nuove speranze, ma le libertà finora conquistate devono ancora fare i conti con corruzione e violenze incancrenite. Un dato, fra gli altri, fotografa quanta strada c'è ancora da percorrere sulla via per la piena libertà: il 2009 ha visto trenta giornalisti morti ammazzati per aver osservato, raccontato, diffuso in nome del diritto di ogni cittadino a essere informato. Di questi, tredici sono stati uccisi nel solo Messico, che si converte nel paese latinoamericano più rischioso per i giornalisti che perseguono la verità. Subito a ruota si piazza la Colombia, con sei morti, quindi il Guatemala con quattro, l'Honduras e il Brasile con due e infine il Salvador, il Venezuela e il Paraguay con uno. Il continente latinoamericano, dunque, in un contesto di crisi economica globale, negli ultimi dodici mesi ha segnato il passo in materia di libertà di stampa e dei diritti dei lavoratori dei mezzi d'informazione, colpiti da licenziamenti e cassa integrazione. A denunciarlo è la Federazione dei giornalisti dell'America latina e del Caraibi.
Gli omicidi, le aggressioni, sono stati nella maggioranza dei casi legati a casi di corruzione. Le vittime solitamente non sono però direttori o giornalisti di grandi media. Salvo casi eccezionali, vengono uccisi comunicatori di mezzi di informazione locali o comunitari oppure corrispondenti di grandi testate ma inviati in piccole località. L'intento, nel 2009, è stato comunque quello di eliminare la notizia. Per questo, in Messico, Colombia, Guatemala, Honduras, Brasile, Paraguay e Venezuela è stato deciso di "uccidere il messaggero".
Il Messico è in piena crisi umanitaria. I tredici giornalisti assassinati ne sono l'esempio lampante. Dietro c'è un grave connubio tra narcotrafficanti e governo, dato che l'impunità regna incontrastata. Aggressioni, intimidazioni, minacce sono la norma per tutti quei professionisti dell'informazione che si pongono con spirito critico e indipendente. Il risultato è o l'autocensura o la morte. Medesima situazione in Colombia, un paese piegato da una guerra interna cinquantennale, dove sguazzano incontrastati narcotraffico e corruzione. Specialmente nelle file governative. E infatti "è il medesimo governo a minimizzare i crimini contro i giornalisti, l'aumento esponenziale degli attacchi violenti contro i comunicatori sociali e la persecuzione verso giudici e magistrati, di cui è il principale artefice, ma che grazie a una suggestiva campagna internazionale riesce a mascherare e negare", spiegano dalla Federazione. Esemplare del clima che si respira in Colombia è la fine che ha fatto il progetto di legge per depenalizzare il reato di ingiuria e calunnia, che adesso irretisce pesantemente la libertà di stampa: eclissato dai dibattiti sulla seconda rielezione dell'onnipresente Alvaro Uribe.
"In Venezuela, invece, le aggressioni avvengono principalmente dallo Stato - denuncia la Federazione - attraverso attacchi di simpatizzanti del governo ai giornalisti e mediante i mancati rinnovi delle licenze ai mezzi di informazione dell'opposizione o semplicemente critici verso le politiche ufficiali". Questa la posizione della Federacion de periodistas, ma sul Venezuela va precisato che, secondo i dati dell'Osservatorio Internazionale sui Media, la gran parte dell'informazione è privata e apertamente schierata con l'opposizione. Tre quarti dei media non fanno che attaccare il governo di Hugo Chavez, dimenticando di perseguire la verità mantenendo una posizione super partes. Certo il ricorso alla violenza non è mai giustificato, nemmeno nel Venezuela bolivariano, dove si conta un giornalista assassinato negli ultimi dodici mesi.
Sono un centinaio, invece, quelli aggrediti nella Repubblica Dominicana, mentre in Honduras la situazione della libertà di stampa è ormai gravissima. Dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009, la repressione contro i media che si sono mostrati critici contro i golpisti è stata sistematica. Perseguitati anche i giornalisti internazionali accorsi nel paese. Due quelli uccisi.
Un peggioramento si è registrato anche nel democratico Brasile, l'unico paese che contemplava giuridicamente l'esigenza di un titolo professionale per esercitare il giornalismo, sbarramento che avrebbe dovuto garantire una certa qualità all'informazione. Avrebbe, dato che il Tribunale supremo, a cui erano ricorsi le lobby dell'editoria, ha appena tolto il paletto aprendo la strada a chicchessia.
Non va meglio in Perú dove, nonostante non sia siano registrati morti ammazzati tra i giornalisti, le aggressioni superano quelle di qualsiasi paese della regione: 180 casi. Il più emblematico, la chiusura forzata di Radio La Voz di Bagua, emittente indipendente castigata per motivi politici solo per aver reso pubblica la verità su quanto accaduto durante la mattanza per mano della polizia contro gli indigeni amazzonici del 5 giugno scorso.
Ottimi passi avanti invece in Argentina, dove è stata approvata la Legge dei Media, che combatte i monopoli dei mezzi d'informazione. Essendo stata redatta da sindacati, Ong e organizzazioni sociali e coordinata dalla Federazione argentina dei lavoratori della stampa è una legge esemplare per molte realtà.
Qualche gradino è stato salito anche dall'Uruguay, che è riuscito a ottenere la depenalizzazione dei reati a mezzo stampa.
http://it.peacereporter.net/articolo/19623/Trenta+morti+affossano+la+libert%26agrave%3B+di+stampa+latinoamericana
Etichette: America Latina
04 gennaio, 2010
La TV francese utilizza un'immagine dell’Honduras per parlare della violenza in Iran
Immagine manipolata da France2.
Flagrante manipolazione informativa
Il video pretendeva mostrare “la repressione a Teheran, oggi”
Redazione, 31 dicembre 2009
L'immagine, molto dura, illustra la situazione di violenza che si vive, così si presume, per strade dell'Iran. La fotografia, messa in onda dal canale France 2, si è diffusa attraverso numerosi blogs, per analizzare le manifestazioni nella capitale iraniana. (Per accedere al video cliccare: aquí.)
France 2 accompagna l'immagine con la seguente spiegazione:
“La ripresa è stata girata oggi a Teheran, le forze repressive sono circondate dai manifestanti. Quest’immagine rappresenta molto bene l’attuale situazione del potere, di fronte ad una popolazione che desidera scrollarselo di dosso ed ottenere la propria libertà”
Molto lodevole l'esercizio giornalistico se non fosse che non si trattava di Teheran, bensì della repressione di una manifestazione per le strade honduregne.
http://www.periodistadigital.com/periodismo/tv/2009/12/31/la-tv-francesa-utiliza-una-imagen-de-honduras-para-hablar-de-iran.shtml
Da: http://voselsoberano.com/v1/index.php?option=com_content&view=article&id=3401:la-tv-francesa-utiliza-una-imagen-de-honduras-para-hablar-de-la-violencia-en-iran&catid=1:noticias-generales
Tradotto da Adelina Bottero
Etichette: Honduras
HONDURAS: Da Isis Obed a Walter Tróchez
Da Isis Obed a Walter Tróchez
Vicini i ricordi del sangue di Isis Obed abbiamo noi che,
con altre centinaia di migliaia di honduregni ed honduregne,
accompagniamo la sua morte annunciata da Óscar Andrés,
un sabato prima del tragico giorno all'aeroporto,
al primo ritorno frustrato del Presidente Manuel Zelaya,
sette giorni dopo il colpo di stato militare.
Il 28 giugno risvegliava una generazione intera in ribellione.
Tutti e tutte minorenni per la guerra, tutti e tutte
nati nella democrazia disuguale che per anni avevano perfezionato
l'oligarchia honduregna e l'imperialismo.
Sublimati nella speranza del consumismo, nella consegna
volontaria allo sfruttamento, dominati dal miraggio
della libertà dell'economia di mercato, prigione dell'anima,
dell'immaginazione e dell'umanità: noi honduregni vivevamo in “pace”.
Di colpo è arrivata la coscienza, la gioventù s’è presa
la propria libertà sul serio; il paese vive quotidianamente un vertiginoso
processo di coscienza e lotta; non vuole più ingiustizie
ed ora si associa con facilità bipartitismo con oligarchia,
ingiustizia con capitalismo, colpo di stato con fascismo,
ipocrisia con Obama ed imperialismo con sottosviluppo.
Appena alcuni mesi fa “identità nazionale” era un paradigma
indescrivibile di sogni confusi imposti dalla
“società civile pro-oligarchica”; le rovine di Copán, più conosciute
in loco dagli stranieri che dai connazionali;
la selezione di calcio formata da club privati che privano
dell'accesso allo sport la maggioranza della popolazione,
sottomessa all'attesa. L'identità nazionale popolare
si riassume oggi integralmente in una parola: “Resistenza”.
Memoria Storica erano i ricordi in trilogie gringhe
e serie inscatolate, che potevamo associare con alcune tappe
della nostra vita ed un orario televisivo. L’82 era l'anno del mondiale.
Oggi 1982 è per tutti il ricordo della recrudescenza
della dottrina di sicurezza nazionale;
nelle nostre coscienze ricompaiono i desaparecidos
e Memoria Storica è un concetto che si popola di lotte
contadine contro proprietari terrieri ed allevatori antiquati,
operai contro oligarchi, studenti contro l'imperialismo,
donne per la pace ed organismi dei diritti umani contro
i fascisti del capitalismo.
Cultura Popolare erano Britney Spears, le Spice Girls, Michael Jackson
ed un gruppo chiamato Rebelde (soprattutto molto ribelle
all'arte e all'intelligenza). Formule del pop moderno
che riproducono il vuoto della gioventù del nord, alienata
dal niente e confezionatrice di suicidi o massacri ingegnosi.
Oggi Cultura Popolare è Caffè Guancasco, Nelson Pavón “il cane felice”,
Teatro Memorie di Tito Ochoa ed il suo magnifico elenco
e tutti gli Artisti in Resistenza.
Arte in libertà che libera e democratizza la cultura,
si alimenta di applausi popolari e sorrisi umili.
Artisti rivoluzionari che affrontano la tecnica con serietà
e la vita con allegria; produttori e riproduttori dell'immaginario collettivo.
Le donne, che portano con se’ tutt’una storia di lotte per essere
tenute in conto, si sono prese in conto le strade,
le pareti, la disputa contro i poliziotti, uomini repressori e
riproduttori esatti del patriarcato che vivono in tempi
di “pace”. Mariti in divisa; un po' di più della stessa cosa.
Nel ‘54 costruirono anche uno spazio, il risultato fu
il riconoscimento del voto meno di un anno più tardi. Adesso?
Forse devono considerare la loro maggioranza assoluta,
come assoluta è stata la loro maggioranza per le strade e nella lotta.
Grida di donne rauche, uomini incurvati nel camminare,
bandiere di molti colori. Uomini o donne?
No, né una cosa né altra. Esseri umani con la sessualità che
sentono, senza pregiudizi o etichette. Hanno scoperto la
libertà del sesso e la sessualità, escono per le strade a chiedere
democrazia ed un po' di rispetto per la loro intimità e le loro
decisioni. Ci superano in diversità, disciplina e coraggio.
Con essi, con esse, Walter Tróchez, che libera
prigionieri politici, che denuncia abusi, che battaglia frontalmente
contro la brutalità. Torturato, ritorna alla strada e cade
a causa delle pallottole, approvate da Llorens nel suo bilancio preventivo annuale.
L’Honduras continua il suo cammino di liberazione mentre
quantifica e si sorprende del ritardo che realmente viveva,
quando erano pochi gli honduregni o honduregne coscienti:
si stupirebbero del processo tortuoso e difficile che vive il
popolo di Morazán, affrontando battaglie tanto piccole e storiche;
è che vivevamo nel Medioevo e ci costa
molto superarlo, ciò nonostante oltre a resistere alla barbarie,
indubitabilmente avanziamo e vinceremo.
Da Isis a Walter, la morte non è invano.
Gilberto Ríos Munguía - Segretario di Formazione Politica ed Ideologica - OPLN
traduzione di ADELINA BOTTERO
Vicini i ricordi del sangue di Isis Obed abbiamo noi che,
con altre centinaia di migliaia di honduregni ed honduregne,
accompagniamo la sua morte annunciata da Óscar Andrés,
un sabato prima del tragico giorno all'aeroporto,
al primo ritorno frustrato del Presidente Manuel Zelaya,
sette giorni dopo il colpo di stato militare.
Il 28 giugno risvegliava una generazione intera in ribellione.
Tutti e tutte minorenni per la guerra, tutti e tutte
nati nella democrazia disuguale che per anni avevano perfezionato
l'oligarchia honduregna e l'imperialismo.
Sublimati nella speranza del consumismo, nella consegna
volontaria allo sfruttamento, dominati dal miraggio
della libertà dell'economia di mercato, prigione dell'anima,
dell'immaginazione e dell'umanità: noi honduregni vivevamo in “pace”.
Di colpo è arrivata la coscienza, la gioventù s’è presa
la propria libertà sul serio; il paese vive quotidianamente un vertiginoso
processo di coscienza e lotta; non vuole più ingiustizie
ed ora si associa con facilità bipartitismo con oligarchia,
ingiustizia con capitalismo, colpo di stato con fascismo,
ipocrisia con Obama ed imperialismo con sottosviluppo.
Appena alcuni mesi fa “identità nazionale” era un paradigma
indescrivibile di sogni confusi imposti dalla
“società civile pro-oligarchica”; le rovine di Copán, più conosciute
in loco dagli stranieri che dai connazionali;
la selezione di calcio formata da club privati che privano
dell'accesso allo sport la maggioranza della popolazione,
sottomessa all'attesa. L'identità nazionale popolare
si riassume oggi integralmente in una parola: “Resistenza”.
Memoria Storica erano i ricordi in trilogie gringhe
e serie inscatolate, che potevamo associare con alcune tappe
della nostra vita ed un orario televisivo. L’82 era l'anno del mondiale.
Oggi 1982 è per tutti il ricordo della recrudescenza
della dottrina di sicurezza nazionale;
nelle nostre coscienze ricompaiono i desaparecidos
e Memoria Storica è un concetto che si popola di lotte
contadine contro proprietari terrieri ed allevatori antiquati,
operai contro oligarchi, studenti contro l'imperialismo,
donne per la pace ed organismi dei diritti umani contro
i fascisti del capitalismo.
Cultura Popolare erano Britney Spears, le Spice Girls, Michael Jackson
ed un gruppo chiamato Rebelde (soprattutto molto ribelle
all'arte e all'intelligenza). Formule del pop moderno
che riproducono il vuoto della gioventù del nord, alienata
dal niente e confezionatrice di suicidi o massacri ingegnosi.
Oggi Cultura Popolare è Caffè Guancasco, Nelson Pavón “il cane felice”,
Teatro Memorie di Tito Ochoa ed il suo magnifico elenco
e tutti gli Artisti in Resistenza.
Arte in libertà che libera e democratizza la cultura,
si alimenta di applausi popolari e sorrisi umili.
Artisti rivoluzionari che affrontano la tecnica con serietà
e la vita con allegria; produttori e riproduttori dell'immaginario collettivo.
Le donne, che portano con se’ tutt’una storia di lotte per essere
tenute in conto, si sono prese in conto le strade,
le pareti, la disputa contro i poliziotti, uomini repressori e
riproduttori esatti del patriarcato che vivono in tempi
di “pace”. Mariti in divisa; un po' di più della stessa cosa.
Nel ‘54 costruirono anche uno spazio, il risultato fu
il riconoscimento del voto meno di un anno più tardi. Adesso?
Forse devono considerare la loro maggioranza assoluta,
come assoluta è stata la loro maggioranza per le strade e nella lotta.
Grida di donne rauche, uomini incurvati nel camminare,
bandiere di molti colori. Uomini o donne?
No, né una cosa né altra. Esseri umani con la sessualità che
sentono, senza pregiudizi o etichette. Hanno scoperto la
libertà del sesso e la sessualità, escono per le strade a chiedere
democrazia ed un po' di rispetto per la loro intimità e le loro
decisioni. Ci superano in diversità, disciplina e coraggio.
Con essi, con esse, Walter Tróchez, che libera
prigionieri politici, che denuncia abusi, che battaglia frontalmente
contro la brutalità. Torturato, ritorna alla strada e cade
a causa delle pallottole, approvate da Llorens nel suo bilancio preventivo annuale.
L’Honduras continua il suo cammino di liberazione mentre
quantifica e si sorprende del ritardo che realmente viveva,
quando erano pochi gli honduregni o honduregne coscienti:
si stupirebbero del processo tortuoso e difficile che vive il
popolo di Morazán, affrontando battaglie tanto piccole e storiche;
è che vivevamo nel Medioevo e ci costa
molto superarlo, ciò nonostante oltre a resistere alla barbarie,
indubitabilmente avanziamo e vinceremo.
Da Isis a Walter, la morte non è invano.
Gilberto Ríos Munguía - Segretario di Formazione Politica ed Ideologica - OPLN
traduzione di ADELINA BOTTERO
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