09 febbraio, 2010

ADDIO AL COMPAGNO PRESIDENTE

28 gennaio 2010 - El Libertador
Tegucigalpa. Ci siamo riuniti come sempre di fronte all'Università Pedagogica, continuavamo ad arrivare da tutte le parti, in autobus, in macchina, in moto. Destinazione: l'aeroporto. Quando la moltitudine ormai si perdeva fra le strade che circondano l'Università, siamo partiti per il Boulevard. Quanti eravamo? Migliaia, decine di migliaia, impossibilitati ad avere un'altra prospettiva (l'elicottero del Canal 36 che doveva fare le riprese aeree non fu autorizzato a volare) noi monitoravamo via cellulare, una mia amica camminava avanti di due chilometri, ed ancora il corteo si dispiegava un paio di chilometri più in là.
Chi eravamo? Ah, è facile, un'allegra rappresentanza della cosa più preziosa del popolo honduregno: organizzazioni di quartiere, femministe, ecologisti, liberali veraci, contadini e contadine, studenti, casalinghe, insegnanti, come me, i compagni e compagne dell’UD (Partito di Unificazione Democratica), professionisti, molta classe media, molta classe operaia, venditori ambulanti - compagni e compagne solidali - che si guadagnavano qualche soldo durante il tragitto. C'eravamo noi che facciamo questo paese ogni giorno, facce dalla pelle scura, meticcia o bianca, noi che veniamo da madri indigene, o mulatte, che bella la diversità di colori della mia gente!
In parte camminavamo, in parte ballavamo. I giovani facevano l'onda. La gente, che ci guardava dalle proprie case, applaudiva, agitava bandiere, come una donnina che si era arrampicata sul tetto di casa sua, e sorrideva. I veicoli che passavano per l'altra corsia del boulevard ci suonavano il clacson a mo’ di saluto. Perciò sostengo che noi lì in corteo eravamo solo una rappresentanza, molti altri non marciavano, ma erano lì, in nostro appoggio.
Camminavamo tesi, cantando vecchi slogan: “El Pueblo Unido...” e nuovi motti: “Si cerca un presidente, che non sia golpista e non fotta la gente”. Come sempre citavamo Neruda: “Alta è la notte… e Morazán vigila!” Ed ovviamente, uno spazio per ridere dei nostri golpisti: cartelli nei quali Micheletti appariva come gorilla, come dinosauro, o come lo zio Sam. Uno si vestì perfino da Micheletti, con maschera e tutto, e un cartello che diceva: “Per essere eroe bisogna essere golpista, corrotto, assassino...” alludendo alla proclamazione di eroe nazionale che gli hanno dedicato i pagliacci di sempre.
Per strada la polizia c'era appena, ma prima d’arrivare abbiamo saputo che avevano militarizzato l'aeroporto. Giungendo li vedemmo, stavano dappertutto, nella torre di controllo avevano messo dei cecchini che ci puntavano addosso. Cantammo: “A studiare, ad imparare, per sbirro mai diventare”.
Straripammo dalle strade dell'aeroporto. Gli e le compagne della resistenza avevano montato un palco dove già sette mesi fa cadde il nostro primo martire, Isis Obed. E cominciò il passaggio delle consegne: la ministra Mayra Mejía del Cid, portatrice della fascia presidenziale di Manuel Zelaya, la consegnò ad un bambino e alla nonna della resistenza. Mi venne un nodo in gola. Ma era solo l’inizio. Furono liberati palloncini in cielo, uno per ogni martire, e noi gridavamo: “Presente!” “Isis Obed! Presente! Presente! Presente!” Non ci sarà oblio, non ci sarà perdono compagni e compagne, vogliamo giustizia, Giustizia!
Abbiamo aspettato per molto tempo, ascoltando musica. Dubitavamo che il presidente sarebbe partito da quest’aeroporto, ma continuavamo ad aspettare. Alle 3 del pomeriggio, la pista si riempì di militari e poliziotti che si avvicinarono a noi in atteggiamento provocatorio. Gridammo loro: “Avete paura di noi, perché non abbiamo paura!” Ma non successe nulla, rimanemmo a guardarci in faccia. Una staccionata ci separava, li vedemmo di fronte, senza paura.
In quel momento dagli altoparlanti annunciarono che Mel Zelaya era arrivato all'aeroporto. E vedemmo l'aeroplano bianco. Tutti e tutte gridammo forte: “Mel, amico, il popolo sta con te!” E decollò.
Ho visto molti volti in lacrime, e ho pianto. Ho pianto ricordando tutte le lotte, le marce, i gas lacrimogeni, le corse, le amicizie che ho guadagnato, quelle che ho perso, e tutti gli atti d’eroismo che ho visto in tanti e tante compagne, compreso, ovviamente, il compagno Mel Zelaya.
Ho pianto per le sofferenze vecchie e nuove, ho pianto perché in quel momento stavamo dando alla luce il nuovo Honduras, non quello dello stadio vuoto di Lobo e della sua muta di cani, l’Honduras nuovo che cresce in noi, nella nostra organizzazione e nel nostro impegno. Il fatto è che in Honduras, come in altre parti della nostra nazione latinoamericana, l’era sta partorendo un cuore.
“Torneremo” - disse Mel -. Così sia.

Delfina Bermúdez, insegnante honduregna in resistenza

http://redsolhonduras.blogspot.com /

Tradotto da Adelina Bottero

Etichette:


Comments:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.





<< Home

This page is powered by Blogger. Isn't yours?